Tokyo. In un giovedì di gennaio, presa com’ero dagli esami universitari di quei giorni, camminavo assorta verso la stazione di Kichijōji. Una piccola piazza di fronte all’uscita nord, spesso occupata da volontari di raccolte fondi, artisti di strada o candidati in campagna elettorale, quella sera ha catturato la mia attenzione più del solito.
Mi sono avvicinata incuriosita a una delle tre persone che distribuivano volantini e ho cercato di intuire il tema del discorso. Dico “cercato” perché buona parte del lessico utilizzato era oltre le mie competenze.
Ad ogni modo, una prima scorsa alla locandina che ho ricevuto mi è bastata a capire che si trattava di una manifestazione in solidarietà alla popolazione civile della striscia di Gaza. Non vedevo qualcuno parlarne in pubblico da quando, mesi fa, il Partito Comunista Giapponese aveva tenuto un comizio con alcuni dei suoi principali esponenti fuori dalla stazione di Shinjuku.
Un uomo si è poi avvicinato e mi ha spiegato di far parte di un sindacato e di stare promuovendo una ben più grande marcia che avrebbe avuto luogo l’ultima domenica dello stesso mese. Tanta era la curiosità destata dagli slogan di quel volantino e dall’idea di prendere parte per la prima volta a una manifestazione in Giappone, che ho deciso di lasciare loro un mio contatto con la promessa che avrei partecipato.
Non capita spesso, dalle nostre parti, di sentire parlare di proteste in estremo oriente che non riguardino Taiwan o Hong Kong e per ovvi motivi non se ne può paragonare la portata. Cionondimeno, con questo racconto spero di contribuire alla narrazione di quanto, a dispetto dello stereotipo sulla sua uniformità, questa società sia varia e stratificata e le voci critiche siano forti e numerose.
Il gruppo che ha organizzato la manifestazione si chiama Kaiken-sensō Soshi! Daikōshin, che letteralmente significa “grande marcia per impedire modifiche costituzionali e guerre” e fa capo a un sindacato di ideologia marxista con sede a Chiba. In questo momento si concentrano in modo particolare sulla questione israelo-palestinese, ma i loro slogan includono “USA-NATO&Russia, giù le mani dall’Ucraina!”, “No guerra alla Cina”, “Destituzione di Kishida!” (Kishida è l’attuale primo ministro giapponese, presidente del Partito Liberal Democratico, di orientamento conservatore e nazionalista e che governa il paese da quasi settant’anni). Le manifestazioni di dissenso nei confronti dell’operato del governo e del suo appoggio all’imperialismo statunitense saranno protagoniste della marcia.
Domenica 28 gennaio mi sono dunque recata presso il luogo di incontro prestabilito: secondo il programma, dalle 14:00 alle 14:50 avremmo dovuto radunare quante più persone possibili tramite brevi interventi da parte di vari membri del gruppo. Sono stata subito accolta da Makoto Inoue, in passato operaio in un allevamento di pollame e oggi autista di mezzi pubblici.
Come avevo immaginato, l’età anagrafica della maggior parte dei manifestanti era visibilmente piuttosto alta, ma mi è stato spiegato che esiste anche un piccolo sottogruppo di studenti universitari, del quale mi è stato presentato il referente Yoshida. Yoshida è anche l’ultima persona con cui ho parlato prima di andarmene e con la quale sto mantenendo i contatti. Dopo aver atteso l’arrivo di tutti e attirato qualche passante, ci siamo diretti verso il luogo di partenza della marcia, ovvero il parco di Inokashira.
Fuori dal parco ci attendevano le forze di polizia predisposte in vista della manifestazione. I poliziotti avevano tutti manette e ricetrasmittenti, ma nessuno di loro aveva caschi, scudi o armi. Solo alcuni avevano dei manganelli rossi catarifrangenti. Ho percepito fin da subito un clima ben più disteso di quello che il mio immaginario sulle proteste associa al rapporto con la polizia.
Erano molto numerosi, ma non hanno fatto altro che seguirci dirigendo il flusso e accertandosi che non fossimo d’intralcio alla circolazione, cosa che mi ha trasmesso la costante sensazione che si trovassero lì per proteggere noi manifestanti e non che fossimo visti come una minaccia. Soltanto una volta sono stati in procinto di intervenire: poco prima dell’inizio della marcia, un uomo si è avvicinato gridando frasi sconnesse e nonostante due poliziotti si stessero dirigendo verso di lui, la leader della protesta lo ha accompagnato altrove con estrema tranquillità.
Lei si chiama Kayoko Arai e lavora come infermiera in una residenza per anziani. È di gran lunga la più carismatica e disinvolta del gruppo, perciò le ho chiesto cosa volesse dire ai lettori italiani:
«In questi anni stiamo assistendo allo scoppio di vari conflitti nel mondo. Noi oggi abbiamo protestato dicendo “Stop al genocidio a Gaza”, “Solidarietà alla Palestina”, ma il problema non riguarda solo la Palestina e Gaza, bensì le guerre di tutto il mondo. Anche quella in Ucraina. La prossima sarà la guerra mossa alla Cina da parte di Giappone e Stati Uniti, il cui campo di battaglia sarà Okinawa.
Il nostro appello è ai lavoratori di tutto il mondo, perché si uniscano per opporsi a tali conflitti. Perciò, agiamo insieme nella convinzione che anche in Italia le persone si stiano mobilitando in questo modo. La lotta è in corso anche in Italia. Dunque, trovandoci a lottare insieme, noi ci impegniamo a far sentire la nostra voce anche in Giappone. La classe operaia non conosce confini territoriali. “Proletari, unitevi!”.
La guerra fa sì che i lavoratori si uccidano l’un l’altro. Si dice loro che farlo per la patria sia “una giusta causa”, ma non è quello il vero fine. È per i potenti che lo si fa, per un pugno di capitalisti che traggono profitto dalla guerra. Per quelle persone, per quegli interessi, avvengono le guerre. È assurdo che per le mire di questi ultimi, i proletari mettano a rischio la loro vita e siano costretti a uccidersi l’un l’altro.
Eppure, a costituire un esercito, a condurlo e a lottare al fronte sono sempre i lavoratori. Perciò, io penso che per fermare le guerre noi dobbiamo scioperare in opposizione a esse. Io credo che da qualunque paese provengano, che siano soli o meno, a prescindere da ciò, dovunque e con chiunque vivano, i lavoratori siano alla pari, gli esseri umani siano alla pari e in quanto pari dovremmo voler fermare le guerre.»
A ciascuno è stato consegnato un tamburello e un cartellone. Alcune persone portavano grandi striscioni verticali su aste. Arai invece si trovava in testa alla fila e aveva un grande tamburo legato in vita e appeso alle spalle. Quando la marcia ha avuto inizio, Arai ha cominciato a gridare al megafono gli slogan che noi altri avremmo ripetuto, il tutto accompagnato dal ritmo veloce del tamburo.
In questo modo abbiamo compiuto un largo giro intorno alla stazione per poi ritornare al punto di partenza. Nel corso della manifestazione abbiamo attirato l’attenzione di molte persone, perché Kichijoji è un quartiere molto frequentato e spesso affollato ma, mi ha fatto notare un’amica, non abbiamo incontrato alcuna controprotesta, se non per una signora che si è avvicinata sventolando una bandiera del Giappone.
La prossima manifestazione si terrà il 24 febbraio, secondo anniversario dell’invasione Russa dell’Ucraina, a Shinjuku e sarà un’azione coordinata con il sindacato turco UID-DER e con Si Cobas. Quest’ultimo ha infatti proclamato uno sciopero generale contro le guerre il 23 febbraio e un corteo a Milano nel giorno successivo, a poche ore di distanza da quello che si terrà a Tokyo.
(Francesca Filiteri)