“Cus ét?” mi chiese la mamma “non stai bene?” Con una mano mi tenevo la testa, con l’altra mi stavo massaggiando la schiena.
“Mi sento tutta smasata, incriccata, racasata! Sono proprio imbazurlita! Ho tossito tutta notte e ho mal di gola.”
La mamma mi guardò di sbieco: “Eh purèna, a tò sintù, mah, l’è ora adés! Tat n’adarè!”
Per i non romagnoli: “non lamentarti”, “te ne accorgerai fra un po’ di anni”, “quando sarà la sua ora capirai cosa vuol dire aver del male addosso!”.
“Fam sintì stè la frév, forse hai la febbre, avrai preso freddo, sta pur sémprer in zir… ce l’hai la maglia da sotto di lana?”
Feci un cenno col capo e alzai un po’ le spalle, che non voleva dire né sì né no, ma sotto ho quello che mi pare.
Mi allungò il termometro dopo averlo scosso con energia due o tre volte. “Fai come me, quando esci in motorino mettiti la carta di giornale sotto la giacca, è il miglior antivento e pure economico!”
Ah, mi ci vedevo andare in giro bardata come un cartoccio, avrei fatto una bella figura con gli amici.
“Trentotto e mezzo. Al savéva mè!”
Mi avvicinai al tracantone per cercare qualcosa nella farmacia di casa, ma quello era il suo regno, nessuno poteva aprirlo, ci stavano le medicine che solo lei poteva dispensare: la mamma era la “farmacista della sua tribù”.
“Sa fét, chévet da lè! Al sò mè cus cut vó!” prese dal basso il vecchio pentolino d’alluminio, il sacchetto coi semi e delle garze sgualcite e scure. “Un bèl impiastér un té chéva nisó!”
No, l’impiastro no!, non ero mica più una bambina, l’impiastro era una maletta mai vista, ma quando mia madre si metteva nelle vesti di infermiera professionale era impossibile sfuggirle.
Quando ero piccola e mi ammalavo lei diceva “ta’cì atachéda a què”, ti sei ghiacciata qui, segnandomi lo sterno, “ai pèns mè” e mi preparava un impiastro di semi di lino che faceva bollire nello stesso pentolino d’alluminio perché la polentina si attaccava e non si riusciva più a lavare per bene; bollendo l’impiastro lasciava un particolare odore per la casa, come di fieno cotto, di stalla, poi con un cucchiaio di legno la mamma lo spalmava sulle stesse garze diligentemente lavate e conservate, perché c’è sempre il momento per riutilizzare le cose.
A questo punto cominciava la tortura. Avvolto in un panno di lana bello spesso me lo adagiava al petto, controllando che non fosse ustionante, ma bollente sì. “Ah, gridavo io, brucia, brucia!” e lei: “eh, se non brucia non conta, l’è la mlécca chélda clà fa bè, la’t staca e catàr!” e di impiastri me ne faceva più di uno, la pelle si arrossava tutta, ma il calore e la secrezione tipica del seme di lino bollito curavano la mia tracheite. Poi la mamma riponeva il tutto nel tracantone.
La mamma era la farmacista di casa: era lei che metteva in tavola a pranzo e a cena le medicine che il babbo doveva prendere prima e dopo i pasti. Glielo ricordava, gli correva dietro se le dimenticava: “Torna indré, tat c’é smèng e tagamet!”
Il babbo soffriva di ulcera allo stomaco e aveva già avuto un intervento d’urgenza; la mamma si era già spaventata abbastanza per i suoi gusti.
Seguiva alla lettera le indicazioni del medico, del quale aveva una fiducia cieca e un canale di comunicazione personale.
Io potevo solo andare a tenerle il posto in sala d’aspetto in attesa che lei arrivasse per farsi segnare le medicine, dare le indicazioni e la posologia. Aveva un quadernetto nel quale annotava tutto. “Le malattie vanno prese sul serio. Se ci fossero state le medicine che ci sono oggi la mia povera mamma sarebbe ancora al mondo. Adesso la TBC si cura, ma lei nel ’46 ne è morta.
Povera la mia mamma, era così buona! Come vorrei che avesse vissuto altri anni ancora, avrebbe potuto star benino, conoscere un po’ di benessere, invece ha fatto solo figli, uno dietro l’altro, dodici gravidanze, dodici parti, poi la miseria più nera, la guerra devastante, le bombe, lo sfollamento, la vita per mesi rinchiusi in una cantina umida, la paura dei tedeschi che rastrellavano gli uomini che noi donne tenevamo nascosti in un buco sotto il letto e poi quando tutto è finalmente finito, quando lei avrebbe potuto veder crescere i suoi nipoti in pace, la sua malattia è peggiorata e in poco tempo è morta. Aveva poco più di cinquant’anni la mia mamma, ma sembrava una vecchina. Adesso ci sono gli antibiotici, tante malattie si possono curare, allora non c’era niente, niente, neanche soldi per alleviare le sofferenze, ut tuchéva sol padì, vedevi ammalare e poi morire i tuoi cari e non potevi far niente, solo piangere! Cosa vuoi che sia un po’ di mal di gola, l’è ora adés!
(Roberta Giacometti)