Nuovo appuntamento con il diario di viaggio di Daniele Ferri. Una scelta di vita ha portato lui e la sua compagna in Australia, alla scoperta di una nuova terra.

Leggi i pezzi precedenti >>>>

Erano bastati un paio di giorni per ritrovarci di fronte a quella che sarebbe stata la nostra terza casa da quando eravamo atterrati in Australia, a gennaio. Un palazzo altissimo, di ultima generazione. Dall’esterno poteva sembrare il solito mostro di cemento, uno dei tanti presenti a Melbourne. Bastò varcare l’ingresso per cambiare subito idea.

Il giardino interno, dalla forma quadrata, sembrava essere l’ossatura intorno al quale si sviluppava l’intera struttura. La sezione quadrata di quello spazio verde si proiettava per tutta l’altezza, lasciando uno spazio vuoto molto caratteristico; una cavità interna, nella quale confluiva una cascata di luce naturale. Direttamente dal cielo.

Ogni piano ruotava intorno a questa sezione, fino all’ultimo, il sesto. Quello in cui avremmo abitato noi. Il più bello, dotato di una terrazza sulla città caratterizzata da un piccolo giardino molto curato. Il legno era l’elemento principale, come a voler allontanare ulteriormente il palazzo dagli stereotipi su quelle costruzioni tristi e poco ecosostenibili, le une ammassate alle altre.

Appena usciti dall’ascensore ci siamo sentiti avvolti da un calore incredibile. Non per le temperature, che ormai sfioravano gradi tipici della stagione invernale. Era più una sensazione percepita grazie all’ambiente circostante; non credevamo che un “palazzo” potesse riuscire nell’intento di farti sentire come nella più confortevole delle case.

Inebriati ci siamo diretti verso il nostro appartamento. La porta era completamente aperta, segno di estrema fiducia nei confronti degli altri coinquilini. Rimanemmo perplessi, ancora ignari del motivo di quello “strano” particolare.

Il nostro affittuario, l’eclettico Dino, aspettava sulla soglia pronto ad abbracciare entrambi. Sembrava estremamente felice di avere finalmente qualcun altro con cui condividere il suo appartamento.

Appoggiate le valigie rimasi a bocca aperta. Quell’appartamento sembrava uscito da una fiaba; pavimento in legno e salotto che si affacciava direttamente sulla città, grazie ad una porta finestra lunga tutta una parete. Soffitti altissimi e lampadari molto chic, con piante rampicanti appese alla grata della scala che portava al piano rialzato.

Qui c’erano due camere e un bagno. La nostra, quella leggermente più grande, era molto illuminata e confortevole. L’altra invece, quella dove al momento dormiva Dino, era piú piccola ma dotata di lucernario.

Prima che il nostro cicerone ci lasciasse sistemare le nostre cose con calma, gli feci una domanda:
“Come mai c’era la porta aperta quando siamo arrivati?”
Lui mi guardò un po’ stupito, e poi rispose: “Beh, questo non è solo un condominio, ma una grande comunità. Chi entra in casa degli altri lo fa solo per fare festa, non di certo per rubare qualcosa.”

Rimasi affascinato da un concetto così semplice ma anche cosí lontano dalla nostra cultura. Era l’ennesimo indizio che quella casa, quel numero 5 di Ducket Street, sarebbe entrato di prepotenza nel nostro cuore.

(Daniele Ferri)