La sua voce profonda e teatrale rimbombava nell’atrio delle scale: «Arrivano i ladri!». Poi si sentivano i rumori dei suoi passi, lenti, strascicati, accompagnati dal toc, toc del bastone, un rumore secco. Al pianerottolo si fermava, inveiva, farfugliava, si capiva solo: puténa bóia. Riprendeva aiutandosi nella salita con il corrimano, facendo uno scalino alla volta.
Impiegava cinque minuti per fare un piano, due rampe di scale in tutto. La porta la trovava aperta e non la richiudeva. Entrava in casa dicendo perentoria: «Stanòt a géva ca muréva.» Stanotte dicevo che morivo, che era la volta buona. «Oh! Che batticuore! Fatemi sedere!» E, come se a modo suo avesse chiesto permesso, si lasciava cadere sulla vecchia poltrona del tinello.
L’entrata della nonna in casa mia era sempre così. Lei si presentava come una ladra della nostra intimità. Arrivava poco dopo l’una. Io in genere ero appena rientrata da scuola e stavo mangiando da sola; mia madre era in cucina che rigovernava perché lei, il babbo e mia sorella avevano già pranzato e dovevano ritornare presto al lavoro.
La mia nonna, la mamma del babbo, aveva più di ottant’anni, io quasi dodici. Si sedeva e, preso fiato, ripeteva la sua frase d’entrata, perché alla prima battuta non aveva sentito commenti: stanòt a géva ca muréva.
«L’hai detto anche ieri nonna, e anche l’altro ieri. E invece sei sempre qui.» Le rispondevo masticando.
Non ero proprio gentile con lei, non avevo i modi educati che si devono alle persone anziane.
Ma contro la nonna c’era, fra me e mia madre, una sorta di sodalizio di sangue contro un invadente corpo ritenuto estraneo: la nonna era per la mamma la classica suocera becera e petulante e per me nipote, sebbene il sangue fra noi c’entrasse eccome, non era la classica nonnina buona e gentile che mi raccontava le favole e mi comprava il gelato. Tutt’altro.
Era invidiosa e gelosa di quello che mangiavo, mi portava via le cose più buone dal piatto. La crema poi! Quando la mamma me la preparava e ancora calda me ne dava una ciotola con un biscotto dentro, lei si alzava dalla poltrona, era svelta allora, e portava il piattino vicino agli occhi, sotto il naso, e la voleva lei quella crema, che a lei nessuno mai l’aveva preparata!
La mamma allora le diceva di stare buona, gliene avrebbe data un po’, ma la nonna non era contenta neanche dopo, mentre mangiava la sua crema, sporcandosi la bocca come una bambina randagia, perché il pensiero, il pensiero di quel dolce, di quel profumo buono non era stato rivolto a lei! Questo non lo diceva la nonna, ma lo si capiva dalle sue labbra impiastricciate, da come buttava là il piattino vuoto, con rumore, quasi facendolo cadere e ci trovava dei difetti nella crema: troppo limone, aveva i grumi, troppa farina.
Allora la mamma si spazientiva e partivano dei battibecchi in dialetto, scambi di battute brevi e pungenti. Per me che ascoltavo e non mettevo lingua quelle erano vere e proprie lezioni di botta e risposta fra donne, fra generazioni, con termini originali e allo stesso tempo frasi piene di luoghi comuni.
La mamma tornava in cucina e quei pin, pan delle pentole sbattute facevano capire che era arrabbiata, ma poi pian piano il rumore dall’altra stanza si attenuava e alla fine la mamma riponeva la tovaglia nel cassetto del tavolo, si asciugava le mani nel grembiule e usciva con un debole sorriso scuotendo il capo.
La nonna si accasciava sulla poltrona, chiudeva gli occhi; si rilassava massaggiando i morbidi e lunghi lobi delle sue orecchie e toccando gli orecchini d’oro a forma di anello che portava da sempre. Le sue anelle d’oro, al mi anèl, alle quali era molto attaccata, l’unico suo patrimonio per noi eredi e unico tratto luminoso del suo viso.
Poi ripartiva alla carica: se non avevamo ancora capito, ripeteva la sua frase d’entrata: stanòt a géva ca muréva!
Ah, no basta! «Nonna, non siamo sorde» le dicevo cercando di non alzare la voce.
La nonna era molto miope, ma ci sentiva bene. «Cosa vuoi capire te! Un batticuore così ti porta all’altro mondo!»
«Si vede che non ti ci vogliono ancora all’altro mondo. Devi farci penare ancora un po’.»
«Zitta tu, mangiapane a tradimento. Io alla tua età lavoravo tutto il giorno!»
La mamma allora non taceva. Guai toccare alle mamme le proprie creature. «Perché avete avuto voi una vita dura, la deve fare ènc mi fjóla? Bei discorsi che fate! Non siete mica una nonna voi, siete solo una grande egoista! Ah, s’ui fós incóra e mónd la mi mèma: lei sì che vorrebbe bene a la mi babìna!»
La mamma allora guardava con nostalgia la vecchia foto seppiata appesa in tinello che ritraeva la sua mamma, un volto minuto sfumato in un mezzo busto, e con la punta del grembiule si asciugava gli occhi. La mamma aveva le lacrime facili.
«Cuma sì delichéda! Ciò! Un‘s pò di gnint!» Come siete delicata, non vi si può dir niente, rispondeva offesa la nonna, guardando fuori. Non si amavano.
***
Fiv mò póca malétta
La nonna era una vecchia trasandata, sempre vestita allo stesso modo: infagottata in grandi maglie che portava a strati, una sopra all’altra per non patire freddo, maglie spesso macchiate, gonne lunghe tenute insieme con spille da balia.
Quella sotto, la sottoveste di lana, sempre più lunga delle altre, spuntava dall’orlo. Calze grosse spiegazzate, tenute su da un improbabile elastico sfilacciato, le cadevano sulle caviglie.
Ai piedi, ah che piedi aveva!, scarpe ortopediche di stoffa tutte tagliuzzate: aveva l’artrosi e i suoi piedi erano inguardabili. L’alluce valgo passava sopra le altre dita rattrappite e la pianta del piede era una grande conca.
Le facevano molto male, perché le ossa sporgevano, il “nocione” dolorante le spuntava dalle scarpe, tagliate in quel punto per farla soffrire meno. Per il dolore appena poteva si toglieva le scarpe e chiedeva a mia madre di curargli i piedi, di tagliarle i calli perché non riusciva ormai più a tenere i piedi dentro le scarpe, se quelle erano scarpe.
«Ve li ho tagliati anche ieri, non ci posso far niente, state buona un po’.»
«Stare buona, se aveste il male che ho io! Sintés che mél c’a iò mè!»
Il dialetto era una lingua affascinante, l’unica con cui parlavano i miei famigliari fra loro. Noi bambini lo mescolavamo all’italiano che imparavamo a scuola. Le due lingue erano contaminate al punto tale che, per molto tempo, sono stata convinta che, tante parole storpiate dal dialetto, fossero proprie della lingua italiana. Potrei fare un elenco lunghissimo. Nessuno a casa mi correggeva.
Io parlavo così: «Nonna dai, mi fa scrumlizzo guardare i tuoi piedi!»
Scrumlizzo, secondo una traduzione approssimata, perché in italiano non trovo la parola esatta, vorrebbe dire: mi fanno senso. Ribrezzo misto a schifo e repulsione. Scrumlizzo. Dal dialetto scrumléz.
«Vorrei vedere te con dei piedi così… òja da taiémli sti pì! Me li devo forse tagliare questi piedi?»
La mamma, mossa a compassione, prendeva una crema lenitiva.
«Dovreste lavarveli prima, però! E non solo i piedi!»
La nonna aveva repulsione per l’acqua: solo il contatto, diceva lei, le dava ancora più dolore, fitte doloranti e acute: im dà di furò ch’im fa zighé!.
«Me ormai l’acqua an la vói piò avdè. Non la voglio vedere neanche da lontano. An l’avrì bria capì! Non volete proprio capire!»
«Sti pu cióssa, state pur sporca, a si ‘na bèla cacaròna, si sente da qua l’olezzo di verbena…» e per sdrammatizzare la mamma intonava due strofe della Madame Butterflay: piccinina, mogliettina, olezzo di verbena…
«Turìv e nés, alóra! Chiudetevi il naso! Am tulì ènc in té rozél…» eh sì, un po’ la prendevamo in giro. La mamma, allora, provava a massaggiare quelle povere e piccole ossa rattrappite.
«Piano, piano! Ah, che male! Am fi mèl!»
«Oh, sintì mo so, fiv mó póca malétta….»
La mamma sbuffava, ma poi prendeva un ferro da pedicure e toglieva un po’ di callosità.
«Finito per oggi. State mò calma adesso, che devo fare i lavori.»
Ma la nonna zitta non stava mai e allora parlava con me.
«Cosa vuol dire nonna, malétta?»
Allora lei rideva sguaiata, con fare gracchiante: ah, ah, ah!!!
«Bella domanda! La malétta l’è quéla c’la sta sót a la manèla!»
«Malétta vuol dire borsa» diceva invece la mamma che non aveva gradito le parole della nonna «è come dire: fare della borsa, essere noiosi!»
Ma la nonna non lasciava di certo perdere un argomento così scottante. Era uno dei suoi piaceri: ci provava gusto a essere greve, triviale.
«Mó l’è ènch quéla c’la sta sót a la manèla, di pù ca vé dég me!» Ve lo dico io!
«E la manèla cos’è?» incalzavo io sempre più curiosa.
«O insomma, lasì mó sté!» La mamma non aveva piacere che in casa si parlasse così. Ma a questo punto io facevo combutta con la nonna: si fa presto a dodici anni a stare dalla parte di chi diventa, a suo modo, interessante.
Anche se, quando avevo più o meno sette anni, la nonna era stata perfida con me e me lo ricordavo ancora.
Qualche giorno prima dell’epifania, mentre io cercavo di essere la bambina più buona del mondo, per meritarmi i doni della Befana, mi disse con il suo fare beffardo che potevo continuare a essere la monella che ero perché tanto la Befana non esisteva. La Befana, che io veneravo, la Befana vien di notte con le scarpe tutte rotte, la Befana che mi lasciava la letterina, il carbone e in fondo al letto un regalo.
L’anno che vi trovai la bicicletta ringraziai così tanto la Befana che fui una bimba modello per quasi un mese. La mamma fece fatica a perdonarla perché lei ci contava su quelle settimane, prima e dopo l’Epifania, in cui diventavo un agnellino. «Fai la brava, altrimenti la Befana ti porta solo carbone, lo sai che lei vede tutto!»
Ma da quella volta capii che la nonna sapeva cose interessanti e soprattutto diceva la verità e così quando esclamava: “A vé dég me! ve lo dico io! io diventavo molto, molto curiosa.
***
Bria maridét, valà clè méj
Aspettavamo che la mamma andasse in un’altra stanza e allora la nonna continuava la sua lezione di educazione sessuale dicendomi sottovoce che la manèla altro non era che il pisello, il pistolino insomma, ma manèla lo dicevano solo al suo paese, che in città invece le parole con del sugo si perdevano, venivano sdolcinate, accomodate.
«Pistóla, usèl, macchè macchè, una bèla manèla invézi l’è tót un éter quèl» è tutta un’altra cosa! e se la rideva la nonna e mi suggeriva di non dir niente alla mamma.
«Ta na’darè, te ne accorgerai cos’è, e allora mi darai ragione!»
Mi diceva cose che ancora non capivo, ma quello che percepivo è che avrei dovuto far tesoro delle sue spiegazioni: mi sarebbero venute utili più avanti. Aveva un modo tutto suo di parlare di certi argomenti.
Quello che mi incuriosiva era che mentre per il sesso maschile il suo parlare era greve, per il sesso femminile era di una finezza unica: la chiamava “la natura”.
“Quando ti lavi la natura, se hai prurito alla natura, se ti fa male la natura, quando vedrai una volta al mese e perderai sangue dalla natura”, quella che comunemente dalle altre donne di casa veniva chiamata “pisaja, passerina, parpaja”, ma sempre a voce bassa e proprio solo se ce n’era bisogno, o in altri casi era l’innominata: “lasciala stare, non toccartela”, ecco invece che per la mia nonna grezza e sboccata diventava la natura.
È davvero curioso. È che nella natura c’è un mondo, il mondo intero, l’origine della vita, era come se per la nonna tutto partisse da lì. E come non darle ragione! E ne parlava tranquillamente come parlasse degli occhi, dei piedi.
Aveva un amore particolare per il seno, per il suo. Diceva: «Aiavéva un pèt mè, un pèt, is vultéva tót!»
Si voltavano tutti a guardarle il petto: beh? che c’era di male? «E tè… t’né incóra gnint?»
Quando ti spunteranno le tette, e ormai succederà, non saranno belle come le mie, che te assomigli a tua mamma, un’altra razza.
«In tè bria incóra avgnù i tu barachì?» e le mestruazioni, ancora niente? I ”baracchini” non ti son venuti? Ecco l’educazione sessuale concessa a una quasi ragazzina. Il tutto in dialetto e condito da sonore risate.
Non risatine fra le mani, per nascondere i fatti o per pudore, no no, proprio risate di gusto.
Mi diceva, a proposito: «Adès còntem i tu fat, c’am fag dò riséd…» Raccontami i tuoi fatti che mi faccio due risate: una ragazzina cosa dirà mai, dei suoi problemi ci sarà solo da ridere!
Alla fine della lezione quotidiana, ogni giorno si ripetevano gli stessi quadretti, chiudeva sempre con due frasi storiche, stando ben attenta che fossimo da sole: “gli uomini quando si tirano su le braghe sono a posto anche con Dio”, questa era la prima; “sposati un dottore con dei soldi che il resto non conta”, questa la seconda.
A volte finiva con una variante: «Bria maridét, valà clè méj…» ma io ancora non pensavo a nulla di tutto questo, io giocavo con i miei amici nel cortile, avrei sposato tutti e nessuno allo stesso tempo. Ma ascoltavo questa nonna perché nessun altro aveva nulla da raccontarmi in proposito.
Il suo modo di comunicare, di parlare con gli altri era solo suo. Era un dialetto roco, stretto, senza traduzioni, intuitivo. Acerbo magari ma figurato: se non capivo, fatti miei.
«Té na bèla furtòna tè, la mi vita l’è stéda tóta ‘na sgrazia, la né mia giósta…» e la nonna ricominciava da capo. Hai una bella fortuna tu. Io invece, la mia vita è stata tutta una disgrazia, non è stata giusta.
«Aségni tént fjó. E mi bab l’éra un sgnór par chi tèmp, e lavuréva tot e dè: l’aveva la végna, la cantèna, l’usteréja. Eravamo tanti figli. Mio padre era un signore per quei tempi, aveva la vigna, la cantina, l’osteria ma l’aveva énch la bréca cl’as magnéva tót i sóld.»
La bréca! Quante volte saltava fuori questa parola secca, pronunciata in fretta, fra le labbra, scuotendo la testa, ma poco dopo con un piccolo sussulto la nonna si metteva a sbraitare: ah, fati ròb, fati ròb! Chissà cosa si ricordava. La breca.
La breca era l’amante, con la quale il padre aveva creato una seconda famiglia, con altri figli suoi e del marito della breca. Così andava la vita nei piccoli paesi.
E la rabbia, a Caterina, le si era stratificata in corpo. Il rancore le scorreva nelle vene.
(Roberta Giacometti – Foto archivio Giacometti)