Per la prima volta nella storia l’Italia della pallavolo femminile disputerà la finale alle Olimpiadi e contenderà la medaglia d’oro agli Stati Uniti.

E’ l’Italia di Paola Egonu, di Sarah Fahr, di Myriam Sylla (italiane di seconda generazione), ma soprattutto di Julio Velasco, italiano di adozione.

Julio Velasco (foto di Tasnim News Agency da Wikipedia)

Trent’anni dopo essere stato l’allenatore della nazionale maschile, quella della “generazione di fenomeni”, Velasco continua a ottenere importanti risultati sportivi, oltre che numerose attenzioni mediatiche: l’Italia femminile, che allena dall’inizio del 2024 e non era mai arrivata in semifinale alle Olimpiadi, lo ha fatto vincendo tutte e cinque le partite disputate e perdendo solo un set.

Dagli anni Novanta a oggi Velasco ha avuto una carriera piena di esperienze. Tra le altre cose ha allenato diverse nazionali di pallavolo (tra cui l’Italia sia maschile che femminile), è diventato dirigente nel calcio e ha cominciato a tenere corsi di leadership e team building per aziende private.

Ogni tanto mi capita di incontrare su Linkedin la testimonianza di qualche suo intervento motivazionale tenuto presso importanti imprese.

Velasco è nato a La Plata, in Argentina, da padre peruviano, morto quando aveva sei anni, e da madre argentina di origine inglese. Studiò filosofia negli anni della dittatura militare argentina, poi abbandonò gli studi a pochi esami dalla laurea per trasferirsi a Buenos Aires. In quel periodo era un militante comunista, aveva visto arrestare alcuni amici e anche un fratello minore, di cui non ebbe notizie per alcuni mesi. Raccontò di aver voluto cambiare città e frequentazioni anche per essere meno “osservato”.

C’è una frase molto potente che da anni viene attribuita a uno dei primi discorsi che Velasco fece per presentarsi ai giocatori della nazionale. “Voi italiani siete i migliori del mondo per ciò che riguarda mangiare, bere e vivere bene. O almeno credete di esserlo. Ma tra queste righe gialle qui, quelle che racchiudono i 18 metri del campo, le beccate sempre dai sovietici, dai bulgari, dai polacchi, dalla Germania Est. Il vostro primo nemico siete voi. Da adesso si gioca per vincere”.

Velasco riusciva a trasformare discorsi di sport e aneddoti di pallavolo in simboli di cose più grandi. L’esempio più noto è quello della cultura degli alibi, in cui schiacciatori, palleggiatori e ricevitori si scaricano uno sull’altro le colpe di un attacco sbagliato, per finire con le lamentele che le finestre lasciano passare la luce del sole che abbaglia. “Se cambiamo il bidello, vinciamo le partite!”.

Ancora oggi tiene lezioni in ambito aziendale, il cui obiettivo è ispirare dirigenti e dipendenti a ottenere più risultati e migliori condizioni di lavoro, con una serie di principi e discorsi elaborati nel tempo. A volte sono semplici e efficaci, come l’invito a rischiare (“Uno non può avere il posto fisso alle Poste e una vita spericolata come Vasco Rossi, insieme”), altre volte sono meno classici e più elaborati, come l’analisi dei concetti di vittoria e sconfitta o la definizione del talento.

Una cosa è certa: quel “In campo voglio vedere gli occhi della tigre” è diventato un modo di dire che lo identifica e ci fa capire che la vita, come lo sport, va vissuta con passione, punto su punto, pallone su pallone.

(Tiziano Conti)