Venezia. La domenica della mostra del cinema di Venezia pullula di titoli e di sale piene, ma non pienissime, qualche posto risulta ancora disponibile, per cui non si capisce perché vengano lasciati a spasso i molti accreditati, quelli della stampa e altri, che non riescono ad entrare in sala. Il sistema di prenotazione ha qualche falla. Sono in giro molte persone nel caldo torrido dell’area intorno al Casinò, al Lido. Ci sono in giro anche George Clooney e Brad Pitt, che presentano sornioni il film fuori concorso “Wolfs” di Jon Watts.
A leggere le critiche si è finalmente giunti ad un potenziale Leone d’oro o giù di lì con il film “The brutalist” presentato in concorso dal regista statunitense Brady Corbet, di produzione inglese ed interpretato da Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Raffey Cassidy, Stacy Martin, Emma Laird, Isaach De Bankolé, Alessandro Nivola.
Un film di durata fiume, tre ore e trentacinque minuti che avrebbe steso molti, che invece ha trovato una platea resistente a avvinghiata a questa storia, anche quando a metà proiezione è stata inserita una pausa di 15 minuti affidando allo schermo un’immagine fissa con il timer. E’ la storia lunga trent’anni dell’architetto ebreo ungherese László Tóth (Adrien Brody), emigrato negli Stati Uniti nel 1947. Sopravvissuto a Buchenwald, artista tormentato, lascia la moglie (Felicity Jones) in Europa e vive in povertà negli Usa. Poi la svolta avviene quando incontra un ricco mecenate Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) che gli commissiona un particolare edificio. Chiama la moglie negli Usa. Ma anche questo periodo procede tra alti e bassi, alle prese con questo capriccioso riccone da una parte e il carattere intransigente del genio che vuole imporre una visione senza compromessi. “Ci sono stati tanti architetti, ad esempio del Bauhaus, che non hanno potuto esprimersi e in questo film ho immaginato la storia virtuale di uno di loro. È un film in fondo dedicato agli artisti che non hanno mai realizzato la loro arte”. E ancora Corbet, già attore in patria in film come “Mysterious skin” e “Funny Games”, poi passato dietro la macchina da presa e già vincitore a Venezia con la sua opera prima “L’infanzia di un capo” del premio De Laurentiis: “È stato un film difficile da fare a cui ho lavorato ben sette anni”, tra l’altro girato in pellicola 70 mm. In merito alla durata infine spiega che il film la meritava. La tensione e la forza della narrazione e il ritmo altissimo fatto anche dal montaggio e dalla colonna sonora ne fanno un’opera innovativa e interessante. Da menzionare anche le interpretazioni degli attori, in particolare quella di Adrien Brody.
Per il secondo film in concorso della domenica della mostra ci si sposta in una dimensione sudamericana purtroppo tipica e non ancora del tutto superata, con una storia familiare ambientata a Rio de Janeiro, dove protagonista è una moglie e mamma alle prese con una storia di desaparecidos nel periodo della dittatura anni 70 del Brasile. “Ainda estou aqui (I’m steel here)” del regista Walter Salles, con Fernanda Torres, Selton Mello e Fernanda Montenegro, racconta, con una scrittura ancorata ai dettagli di una donna forte e coraggiosa (Fernanda Torres) e della sua numerosa famiglia, nel periodo in cui imperversano a livello politico sopraffazione e violenza. Quando la inconsapevole quiete domestica viene distrutta da un arbitrario atto di violenza, la protagonista, la cui interprete pare possa aspirare alla coppa Volpi, è costretta a reinventarsi. La storia è quella della famiglia di Marcelo Rubens Paiva, presente anche in conferenza stampa a Venezia, che nel suo libro narra cosa accadde nel 1971 nella casa di Rio de Janeiro, di fronte al mare, in cui viveva con genitori e sorelle.
“Ho avuto la percezione che il film non si stesse rivolgendo agli anni 70 ma alla situazione reale che girava intorno alle riprese” ha ammesso il regista Salles, già autore de “I diari della motocicletta”, in conferenza stampa. Ancora una volta quindi uno sguardo rivolto al passato (il Brasile fu sotto il regime militare dal 1964 al 1985, periodo nel quale si susseguirono al potere alcuni generali tra cui Castelo Branco e Emílio Garrastazu Médici), ma per parlare di un presente che torna a ricalcare gli stessi passi che si sperava fossero invece stati lasciati alle spalle per sempre. Per i critici film di impronta classica, coinvolgente anche se molto politicamente corretto e benissimo interpretato.
Sempre domenica si deve segnalare, fuori concorso, una delle serie invitate a questa edizione della mostra del cinema: “Familier som vores (famiglie come la nostra)”. Si tratta di sette episodi, firmati dal regista danese Thomas Vinterberg e con un gruppo di interpreti corali: Amaryllis August, Albert Rudbeck Lindhardt, Nikolaj Lie Kaas, Paprika Steen, Helene Reingaard Neumann, Magnus Millang, Esben Smed, David Dencik, Thomas Bo Larsen, Asta Kamma August.
La vicenda è distopica. La Danimarca lentamente ma inesorabilmente sta finendo tutta sotto il livello del mare. Si deve evacuare, per sempre, il paese. Ma non tutti conosceranno lo stesso destino. Le proprietà perdono valore, le fortune cambiano e la sorte favorisce alcuni a scapito di altri. Chi se lo potrà permettere andrà nei paesi ricchi, i meno abbienti che dipendono dal governo sono costretti a ripiegare su destinazioni più problematiche, come la Romania o l’Albania.
“Si immagina una situazione in cui noi cittadini di una parte del mondo ricca e civilizzata siamo costretti ad abbandonare tutto. I legami culturali, sociali, finanziari cessano e la condizione diventa quella di profugo” spiega il regista. “E’ pensato come un’epica saga familiare ispirata alle grandi storie europee di migrazione, come quella verso l’America”. Uno sguardo su ciò che ci potrebbe riservare il futuro ma anche una riflessione profonda sulle comuni paure e su ciò che vorremmo potere conservare, la memoria personale e collettiva di un popolo.
Con l’acqua che inesorabilmente ma lentamente avanza a sommergere il paese natio, che rimane sempre sullo sfondo senza diventare il centro delle vicende, nella storia ci si concentra su alcune famiglie. In particolare quella di Laura, una studentessa all’ultimo anno delle superiori, innamorata per la prima volta. La sua vita è sottoposta ad un cambiamento radicale che la travolge ed è costretta a fare una scelta tra chi seguire nella sua nuova vita da profuga: la mamma, il papà e la sua nuova famiglia o il primo amore.
La serie tiene con il fiato sospeso per diverse parti, risulta un po’ troppo cupa in alcune e non annoda sempre benissimo le varie storie che si intrecciano, con alcune sospensioni prolungate e alcune soluzioni un po’ spicciative. Nel complesso si tratta di un prodotto realizzato con cura, che intrattiene.
Infine una piccola menzione ai due divi presenti domenica. Che nel film fuori concorso “Wolfs” si prendono in giro per i primi acciacchi dell’età. Clooney e Pitt sono infatti due fixer, risolviguai professionisti, che come il Mr Wolf dei film di Tarantino, vengono assunti per pulire alla perfezione la scena di un delitto, rischiando il colpo della strega quando si tratta di sollevare un cadavere e gettarlo nell’Hudson. Si ritroveranno, senza conoscersi, ad essere chiamati sulla scena di un crimine e dovranno lavorare insieme per sgomberare una stanza d’albergo e il delitto ivi avvenuto. Tutto in una notte, a New York. Film godibile, movimentato, sempre sagace e arguto e con una riuscita intesa tra le due star. Uscita limitata a fine settembre poi subito su Apple Tv+. Pronto il sequel da girare a breve.
(Caterina Grazioli)