Venezia. Daniel Craig, protagonista queer dell’omonimo film in concorso alla mostra è la dimostrazione di come un attore di talento possa credibilmente passare da James Bond al suo contraltare. Il film del regista e sceneggiatore italiano Luca Guadagnino, famoso in particolare per la pellicola “Chiamami col tuo nome” e ormai habitué del Lido, dove ha vinto il Leone d’argento per “Bones and all” traspone sullo schermo il romanzo “Queer” di William Burroughs, incompiuto. Un americano sbarcato in Messico negli anni ’50,William Lee (Craig appunto) vaga nei locali cercando storie omosessuali e stordimento con alcol e droghe. Pare in realtà alla ricerca di altro. Esplora i luoghi alla ricerca del soddisfacimento dei suoi desideri. Trova infatti un giovane studente di cui si innamora, Eugene Allerton (Drew Starkey). La carne viene soddisfatta, ma il sentimento più profondo che William prova non sembra corrisposto. Per tenere vicino il ragazzo, il maturo yankee gli propone un viaggio alla ricerca dell’allucinogeno yage (l’ayahuasca), che sembra avere poteri telepatici. I due saranno in grado di incontrarsi nonostante tutti i passi falsi e le paure che agiscono su entrambi nel loro viaggio picaresco nel Sud America proiettato dalla mente di Burroughs?
Un racconto audace, dove sesso, dipendenze e ossessioni la fanno da padrone, rappresentato in modo cinematografico con efficacia ed anche humor tramite scenografia, fotografi,a musiche e costumi. E’ stato girato a Cinecittà.
Per il regista si tratta di un viaggio nelle proprie ossessioni ma anche nel ricordo della sua adolescenza: “Voglio essere fedele al giovane che ero. Ho sempre pensato che dovevo portare questo romanzo sul grande schermo”. Al momento, la data ufficiale di uscita del film nelle sale cinematografiche non è ancora stata svelata anche se si presuppone entro la fine dell’anno.
La critica ha espresso pareri positivi sul film, profondo, originale con qualche sperimentazione e originalità debordante, ma con una messa in scena che trasmette ciò che il film vuole rappresentare, comunicare nella mente dell’altro, anche lo spettatore.
Nell’altro film in concorso di martedì, la scena si sposta nello spazio e nel tempo. In “Harvest” della regista, sceneggiatrice e produttrice greca Athina Rachel Tsangari, che torna al Lido dove nel 2010 “Attenberg” vinse al coppa Volpi per l’interpretazione femminile, si narra come nel corso di sette giorni allucinati si verifichi la scomparsa di un villaggio senza nome in un’epoca e un luogo indefiniti. In questa tragicomica interpretazione del genere western, Walter Thirsk, uomo di città datosi all’agricoltura, e l’impacciato proprietario Charles Kent, suo amico d’infanzia, stanno per affrontare un’invasione dal mondo esterno: il trauma della modernità. Un cartografo viene a recintare i campi, superando la gestione condivisa che era sopravvissuta per secoli. Instupiditi da stravaganti rituali pagani e chiusi nel loro mondo gli abitanti non amano gli stranieri, ma nemmeno tra di loro vanno molto d’accordo. E il progresso, come il drago delle favole è pronto a incenerire quella società arcaica. Al solito la cura è peggio della malattia. Tratto dal romanzo del 2013 “Il raccolto di Jim Crace”, il film racconta la direzione in cui va il mondo: “Per me, “Harvest” è un film sulla resa dei conti. Cosa abbiamo fatto? In che direzione stiamo andando? Come possiamo salvare il suolo, il sé all’interno dei beni comuni? “Harvest” si svolge in un mondo liminale, e illustra le prime crepe della “rivoluzione” industriale. gli interpreti principali sono Caleb Landry Jones, Harry Melling, Rosy McEwen, Arinzé Kene, Thalissa Teixeira, Frank Dillane.
Per alcuni critici l’operazione non è pienamente riuscita: il racconto risulta confuso e tematicamente caotico. Le istanze ambientaliste, sociali si giustappongono al racconto poetico in un amalgama che richiede pazienza alla visione.
(Caterina Grazioli)