Venezia. C’è aria di smobilitazione in questi ultimi giorni della mostra. Sembra che tutto quello che doveva essere visto sia stato visto. Pochi fan in attesa del red carpet. Pochi accreditati e abbonati con badge al collo che si aggirano tra i chioschi di panini e drink senza quasi code. Eppure ci sono ancora interessanti esperienze in sala, come due degli ultimi film in concorso, “April’ di Dea Kulumbegashvili, film georgiano e “Qing chun: Gui (youth: homecominng)” del regista cinese Wang Bing.

Credits_Arseni_Khachaturan

Il primo narra la storia di Nina, una ginecologa che aiuta le donne che abitano nei villaggi rurali vicino all’ospedale dove lavora, ad abortire. Quando viene coinvolta nell’inchiesta per la morte di un nascituro, rischia di essere scoperta, ma questo non le impedisce di andare avanti lo stesso, fino a che la situazione le sfugge di mano con conseguenze tragiche, quando decide di aiutare, su sollecitazione della madre, ad interrompere la gravidanza di una ragazza disabile. Inquadrature fisse, statiche e prolungate. Poche parole. Un parto naturale ed uno con taglio cesareo, vividamente inquadrati, un aborto ripreso di sguincio, con una camera che rimane ferma per diversi minuti. Pezzi di corpi e volti, un’inquietante figura femminile decrepita e nuda ma abbozzolata e senza volto che compare in alcune scene, strascicandosi e respirando rumorosamente. La campagna in primavera vista come un quadro. Come colonna sonora il latrato dei cani, i suoni della campagna, un temporale, i rumori delle auto e di altri respiri. Una vita difficile a quella latitudine, la realtà femminile è dominata da sopraffazione e sofferenza. E nel film questo viene reso in tutta la sua brutale verità. Anche una figura professionale, emancipata e solitaria come la ginecologa deve dipendere dall’aiuto maschile, rappresentato dal collega e dal superiore dell’ospedale, per mantenere il suo lavoro. È difficile anche dare sfogo alla propria sessualità libera in quel contesto, con quegli uomini. Una storia piccola, ma girata in maniera innovativa, che rivela una grande ricerca e si misura con i limiti di accettazione degli spettatori della sala. È l’arte che tenta di farsi strada nella collaudata industria cinematografica e che dà il senso alla mostra. 

Il film, coprodotto da Francia, Italia con Luca Guadagnino e Georgia, ha ottenuto il premio speciale della Giuria.

Difficoltà di vivere all’interno di una società disumanizzata, in questo caso dal mercato e dal profitto, si ritrova anche nel documentario girato nella città cinese di Zhili (100 km da Shangai), dove la troupe guidata dal grande documentarista cinese Wing Bing, segue da vicino le vicende quotidiane di un gruppo di giovani operai, tra i 16 e i 28 anni, nel periodo tra il 2014 e il 2019. Vengono riprese scene di vita di questi ragazzi e ragazze, indicati scrupolosamente con i loro nomi, l’età e i rapporti di parentela, che sono scesi dalle zone rurali in questo distretto tessile per lavorare o meglio essere schiavizzati dal lavoro. Laboratori fatiscenti con macchine da cucire decrepite e pericolose, sporcizia ovunque: nel luogo di lavoro, nelle camere ghetto dei casermoni dove gli operai vivono, nelle strade del quartiere. Una sporcizia che non è espressione di una voluta incuria, ma dell’impossibilità di assolvere anche alle più elementari necessità, dovendo dedicare tutto il tempo possibile a produrre, a costo anche di dormire davanti alla macchina da cucire. Si lavora a cottimo, vengono segnati i capi cuciti su un quadernino, ma non si sa mai prima e per certo quando e quanto si verrà pagati, nonostante pressanti richieste vie cellulare dei giovani lavoranti ai datori di lavoro (individui evanescenti, quasi mai presenti in scena). Il guadagno massimo arriva a 30mila yuan all’anno (circa 3.800 euro), di cui qualcuno si vanta, comunque pochissimo per mantenersi e sostentare la famiglia, ancora più povera, che sta in qualche sperdutissima cittadina. In questo paese che si definisce comunista trionfa il più bieco “liberismo”. Il documentario fa parte di una trilogia anticapitalistica del regista, di cui le altre due parti “Youth (Spring)” e “Youth (Hard Times)”‘ sono state presentate rispettivamente a Cannes e Locarno.

In questa terza parte in realtà si narra anche di un momento di sosta dall’insostenibile e insensato lavoro, che è l’unico mantra che guida la vita di questi ragazzi molto malinconici o forse solo stanchissimi: è arrivato il periodo del Capodanno cinese, una festa sentita, da trascorrere, per chi ci riesce (molti non hanno neanche i soldi dei biglietti del treno) tornando per qualche giorno al paese d’origine a trovare i familiari. Alcuni giovani vengono seguiti nell’estenuante viaggio di ritorno a casa nello Yunnan, attraverso treni sovraffollati, poi camioncini che percorrono impervie strade fangose e ghiacciate inerpicandosi in montagna. Oppure altri tornano in cittadine sulle rive del fiume Yangtze. Anche la realtà dei villaggi è impietosa: scarsità di cibo, freddo, condizioni igieniche precarie, abitazioni fatiscenti e tanto da fare anche lì. Un evanescente velo di leggerezza ed allegria la da’ il festeggiamento del capodanno e un matrimonio tra freddo e fango, con petardi e fuochi d’artificio. Il documentario esalta anche il contrasto tra gli interni claustrofobici e gli ampi spazi esterni: le case sono sempre aperte, quando si può si sta fuori. Non importa se è freddo, non importa che gli altri vedano: prevale ancora il senso di comunità.

Un film complesso e affascinante, composto di tanti tasselli di vita che rappresentano un quadro dei proletari della Cina contemporanea. Un affresco necessario anche se forse non alla portata di tutti, a cui dare attenzione quando arriverà nelle sale grazie a Lucky Red. La coproduzione è internazionale, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, non cinese. Ma verrà mai distribuito in Cina?

Infine l’ultimo film proiettato quest’anno nella sezione principale del concorso cinematografico: “Kjærlighet (Love)”, film norvegese dell’autore Dag Johan Haugerud. Si parla di amore libero, quasi una stereotipo per i paesi scandinavi. Una visione opposta a quella della storia georgiana.

Marianne, una dottoressa pragmatica, e Tor, un infermiere compassionevole, stanno entrambi evitando le relazioni convenzionali. Una sera, dopo un appuntamento al buio, Marianne incontra Tor sul traghetto. Tor, che spesso passa lì la notte in cerca di incontri fortuiti con altri uomini, le racconta di esperienze di intimità spontanea e di importanti conversazioni. Incuriosita da questa prospettiva, Marianne inizia a mettere in discussione le norme sociali e si chiede se tale intimità casuale possa essere un’opzione anche per lei. La pellicola fa parte di una trilogia che ha già visto “Sex” (passato a Berlino, sempre quest’anno), “Dreams” (che forse andrà a Toronto), e appunto “Love”, che nell’insieme danno l’idea di un modo di pensare libero dalle convenzioni, pur restando inalterati i problemi che accompagnano i nostri comportamenti. Dalla critica giudizi contrastanti: per alcuni una storia verbosa e troppo concettuale sul sesso, per altri se pure molto dialogata, riesce a mantenersi leggera e profonda parlando di nascita di rapporti, incertezza del futuro, desidero e piacere sessuale oltre al bisogno di amore.

(Caterina Grazioli)