L’estate è per molti tempi di bilanci e di riflessioni.
In agosto l’Italia si ferma, non più come un tempo, ma si percepisce un clima di rilassatezza diffusa.
“Ci pensiamo a settembre” si è soliti dire.
Eppure, in questa caldissima estate, qualche ragionamento sui mesi appena trascorsi e quelli a venire si dovrebbe anche fare.
Ragionamenti generali sullo stato della politica nel nostro Paese e su una generazione, nata tra i ‘90 e i primi 2000, che fatica ad assumere protagonismo nella politica partitica.

Le ultime europee segnano un bilancio positivo per il primo partito di governo, che ha tenuto (in termini percentuali), massimizzando il consenso sulla sua leader Meloni, ma anche per il primo partito di opposizione, che, attraverso una serie di candidature credibili e un ritrovato spirito unitario, si è attestato su un’ottima percentuale, con buona pace di chi solo pochi mesi prima profetizzava un flop per la Segreteria Schlein.
In quei risultati però, non si tiene conto dell’incredibile livello di astensione nonostante la sovrapposizione con le elezioni amministrative.
Percentuale spaventosa che meriterebbe una riflessione autonoma, ma sulla quale mi permetto di sviluppare un minimo di ragionamento.
Per la prima volta ho visto tante ragazze e ragazzi, anche nella mia rete amicale, rifiutarsi di andare a votare per i motivi più vari. Una bestemmia per chi come me vive il momento del voto con un certo grado di sacralità.
Eppure, ogni mio ragionamento si infrange dinnanzi al più classico “tanto non cambia niente”.
Se in tante e in tanti lo dicono, allora forse qualcosa da cambiare c’è. Non per forza nelle idee, ma magari anche nelle classi dirigenti diffuse.
Credo, infatti, che se l’Italia è passata da essere quella studiata da Putnam nelle sue tesi sul Capitale Sociale, per poi corrodere la partecipazione al voto in due decenni, qualcosa deve pur essere accaduto.
E ce ne saremmo anche accorti prima, forse, se non fosse stato per la presenza del Movimento 5 Stelle, capace di interpretare e intercettare per quasi un decennio un voto “antisistema”.

Ma come ci hanno mostrato i pentastellati, l’antipolitica si corrode in fretta e non possiamo immaginare, io credo, una politica differente senza i partiti.
L’ha compreso benissimo Fratelli d’Italia, che in questi anni ha prepotentemente lavorato sulla costruzione di una nuova classe dirigente diffusa, che si facesse interprete del desiderio di cambiamento dei cittadini italiani.
Fratelli d’Italia ha investito, tanto, anche sulla sua organizzazione giovanile, al punto tale che molti esponenti ed ex esponenti di Gioventù Nazionale, siedono oggi su scranni importanti. D’altronde Giorgia Meloni conosce bene pregi e limiti di quel percorso e ne è stata a lungo sponsor, fino a quando il servizio di Fanpage non ha scostato il velo azzurro che copriva il cuore nero di un pezzo consistente della gioventù meloniana.

L’ha compreso meno bene il Partito Democratico, già da prima dell’arrivo della Segretaria Schlein, la cui ventata di freschezza non è ancora riuscita ad imprimere una svolta definitiva alla giovanile del Pd.
Eppure qualche motivo per investire su una nuova generazione c’è. Il Pd è il partito più votato tra gli Under30 e a seguirlo in questo primato c’è Alleanza Verdi-Sinistra, eppure il Partito Democratico non elegge nessun Under30 nella sua delegazione europea.
Ciò non significa che le elette e gli eletti del Pd non siano capaci di interpretare le esigenze e i desideri delle generazioni che hanno dato loro fiducia, ma è fisiologico che quell’elettorato voglia riconoscersi anche in figure in cui possa immedesimarsi.

Questo discorso vale nelle istituzioni europee e nazionali, ma anche nelle dinamiche locali.
Per interpretare il cambiamento nella continuità servono nuovi punti di riferimento.
La politica deve generare speranza nel futuro. Per alimentarla c’è bisogno di nuovi interpreti del presente.

(Paki Tiani è segretario dei Giovani Democratici di Bologna)