A differenza del settore che comprende le industrie di trasformazione (secondario) e di quello che si occupa di commerci, bancassicurazioni e servizi (terziario), il settore primario raggruppa le attività agricole, forestali e minerarie e dei tre è quello più in “sofferenza” malgrado i fondi europei a lui destinati e gli ingenti aiuti del Pnrr d’ambito green economy e dell’economia circolare.
L’importanza del Pil agricolo è sempre stato predominante rispetto a quello delle altre attività del settore primario ed è per questo che l’attenzione a ricavi/costi/utili è sempre stata massima perchè di vitale importanza per la sopravvivenza dell’intero comparto, inoltre remano contro le notizie dalla Unione europea la cui politica (Pac) ha da tempo fatto intendere che non sarà più “magnanima” a tutto tondo ed obbligherà gli agricoltori ad osservare quegli impegni d’ambito eco-ambientali che fino ad oggi (in parte) sono stati disattesi.
Priorità perciò ad ottenere cibo salubre, energia da biocarburanti ed innovare tecnologicamente che, ad esempio, sono alcuni fra i paletti richiesti dal “programma” Ue/Pnrr per mettere a disposizione vitali risorse ad aziende e cooperative agricole per dar gas al volano della logistica in senso lato, al pari del potenziamento di nuove filiere agroalimentari (frutta a guscio). E soprattutto per porre mano ad una rete irrigua nazionale “colabrodo” finalizzando così il produrre di più con meno risorse grazie a invasi di stoccaggio degni di questo nome (anche idropotabili) al fine di ovviare tanto ai problemi scarsità idrica (siccità) quanto a quelli d’esubero (alluvioni).
Mille perciò i problemi che aspettano gli agricoltori soprattutto per quella nuova generazione di essi che, appena affacciatasi al lavoro per l’inevitabile ricambio generazionale, ha dovuto far i conti tanto con le crisi climatiche da global warming, annate a memoria d’uomo fra le più siccitose quanto al loro opposto, la pandemia e da ultimo il conflitto russo-ucraino con tutto il carico di extra rincari energetici di recente memoria.
Per fare un frutto basta un seme, ma per consumarlo la filiera agroalimentare nazionale ha costi a due cifre per lavoro, capitali, finanziamenti, imposte dirette e indirette, più una serie di altre spese minori inerenti packaging, trasporti/logistica, marketing, energia e per utilizzo di mezzi tecnici agricoli.
Per ottenere perciò utili, che spesso latitano, la strada da percorrere è solo logicamente quella della riduzione dei costi che vede in quello della manodopera quello più facilmente raggiungibile grazie all’introduzione della meccanizzazione di alta tecnologia capace di sostituire le mansioni degli operatori in carne e ossa, così in campo nelle potature, lavorazioni terreno, difesa fitosanitaria e raccolta delle derrate, così in magazzino nella filiera della cernita, imballo e stoccaggio.
Per chi esporta il made in Italy non si fa Pil come una volta se non sono garantiti controlli, qualità e tutte informazioni che tengono “traccia” dei dati relativi la produzione delle derrate, codici a barre o Qr code in etichetta ne certificano così l’origine in campo sino al punto di vendita per qualsiasi alimento zootecnico, frutta e verdura o vino per così conoscere il viaggio di una bottiglia che si sta per stappare fin dall’appezzamento di terreno dove cresce il vigneto.
Nota dolente in aggiunta a queste risapute è purtroppo quella inerente gli sprechi alimentari dovute alle regolamentazioni commerciali degli Stati stilate dal “cosmetic standard” (canone estetico) che stabiliscono se un ortaggio è troppo piccolo per essere mangiato o se un frutto è troppo brutto da dover essere già scartato in sede di raccolta in campo o in seconda battuta “gettato” durante la cernita di magazzino, sono milioni di tonnellate di prodotti agricoli buttati alla faccia di un terzo della popolazione mondiale che è sottoalimentata.
(Giuseppe Vassura)