Imola. “A chi us’aravìsa?” – Lessico famigliare romagnolo” è il titolo dell’ultimo lavoro di Roberta Giacometti, uscito recentemente per i tipi di “Tempo al Libro”.
“Roberta ha una scrittura caleidoscopica: forte del suo punto di vista privilegiato, per anni ha ascoltato e scandagliato i modi di dire e di fare della sua famiglia ed è stata capace di trattenerli nella memoria e tessere ad anni di distanza racconti spassosissimi”, scrive nella prefazione Antonella Martelli.
Le presentazioni
Presentazione ufficiale del libro “A chi us’aravìsa” (Tempo al libro, 2024) venerdì 29 novembre, ore 17, biblioteca comunale di Imola (via Emilia 80), Dialoga con l’autrice la docente Antonella Martelli.
Per informazioni: tel 0542.602619-602655 – www.bim.comune.imola.bo.it – www.facebook.com/bimbibliotecaimola
Lunedì 2 dicembre, invece, dalle 14.30 alle 16, Roberta Giacometti parteciperà alla rassegna “Miscellanea 2024”, organizzata dall’Auser dove presenterà il suo ultimo lavoro con letture di alcuni pezzi tratti dal libro. Appuntamento nella sala del Cidra in via Fratelli Bandiera 23 a Imola. Per informazioni: Auser Imola tel. 0542.24107 – [email protected]
L’intervista
Roberta, ritorni nelle librerie dopo un po’ di anni di silenzio, anche se ci hai permesso di pubblicare sul leggilanotizia.it qualche tuo racconto.
“Questo libro è una sorta di sorpresa anche per me. Ero caduta in una sorta letargo narrativo. Con la pensione pensavo che mi venisse più voglia di scrivere, e con il Covid pensa a quanto tempo abbiamo avuto, invece non riuscivo più a stare seduta davanti al computer, avevo solo voglia di stare all’aria aperta.
Letargo narrativo?
“Probabilmente nasceva anche da tanti dubbi: mi chiedevo chi poi fosse davvero interessato ai miei pezzi che non sono altro che ricordi di famiglia. Poi però i soliti amici mi hanno detto che erano belli, anche perché riuscivano a strappare dei sorrisi, in un’epoca dove c’è davvero poco da ridere. Così me li sono riletti, e in effetti qualche sorriso è scappato pure a me. Così da una parte erano gli amici a spingermi, dall’altra sono stati gli stessi personaggi di cui scrivo nei racconti che mi hanno stanato, mi hanno trovato, mi hanno tirato per i piedi, in particolare la mamma e così mi tornavano in mente la sua e le altre voci, le ho collegate tra loro trovando questo filo conduttore che è poi un lessico famigliare imolese. Cioè quei modi da dire che, come scriveva Natalia Ginzburg: basta dire una frase e subito si ride e ci s’intende anche dopo tanti anni”.
Quindi la tua fantasia si è ripopolata…
“Infatti partendo da quei modi di dire mi sono tornati fuori i personaggi, la mamma, la zia, la nonna e quella bambina con le trecce che la tormentavano e scappava per la casa perché quelle trecce non le voleva. Avere questa figlia monella, combina-guai, che fra le altre cose non voleva pettinarsi, era per la mamma una fonte di preoccupazione, ma poi era capace anche di riderci sopra. Alla fine è saltata fuori questa sorta di Pippi Calzelunghe imolese e questa mamma che, se non rompe le scatole, e non fa della maletta, non fa la mamma”.
Una presenza costante, quella della mamma.
“Quando era di buon’umore, era come soubrette, rideva e cantava molto anche in casa mentre cucinava e faceva i lavori. È per me un personaggio narrante e attorno a lei si muovono tutte le altre persone della famiglia, a cominciare dalla zia cantante, la mia preferita”.
Tanti ricordi nei tuoi racconti.
“La mamma mi raccontava spesso della guerra, mentre mio babbo, come gran parte degli uomini, non ne parlava per niente, anzi non voleva neanche sentirla nominare. Lui comunque in casa c’era poco. Invece la mamma mi parlava di quello che aveva patito la sua famiglia, i tedeschi che arrivavano, loro che erano rifugiati. Quindi nei racconti c’è sempre qualche riferimento a quel periodo. Nel primo ‘A chi us’aravisa?’, che dà il titolo al libro, racconto di questo cugino Giannetto che nel ‘44 fu preso dai tedeschi, pur essendo vecchio, e la mamma raccontava che si era salvato perché cantava l’opera e così invece di inviarlo nei campi di lavoro lo portavano con loro nei bar a cantare”.
Il successo dei tuoi racconti dipende anche dal fatto che chi legge, soprattutto di una certa età, si immedesima in quello che scrivi.
“In effetti. Ho partecipato a diverse iniziative e tutti ridevano come dei matti quando leggevo dei pezzi dei miei racconti. Fa piacere riuscire a strappare dei sorrisi, e a volte anche qualche lacrima dolce per i ricordi del passato, è importante e anche questo è stato uno stimolo a continuare. Lo scrittore se non ha un suo pubblico, con il quale instaurare una relazione, si demotiva”.
Quanto è importante il dialetto per te?
“In una iniziativa alla Casa Alzheimer una signora a un certo punto mi disse:
– Ma lei è una imolese doc, si sente da come parla il dialetto.
– Signora dove abita?
– In viale Dante
– Allora siamo vicine e parlavamo lo stesso dialetto.
Sì, il dialetto è fondamentale nei miei racconti. E’ una lingua che ha tutta una sua storia, c’è una forte discussione sulla correttezza del suo uso e del modo di scriverlo. Basta spostarsi di pochi chilometri e il dialetto cambia. Io però ho sempre cercato di starne fuori, non sono una studiosa. Non scriverò mai in un dialetto corretto, se mai ce ne fosse uno, perché per me il dialetto è un flusso, un cinguettio, non ha delle regole. Io lo sento così e lo scrivo così, metto qualche accento per fare in modo che chi non è imolese lo possa leggere più o meno come lo sente parlare. Poi ci sono i suoni. Noi imolesi non abbiamo le vocali nasali che hanno nel ravennate e nel faentino, e tronchiamo le parole. Se avessi dovuto scrivere stando attenta alle correttezze formali mi sarei arenata”.
Però lo ammetti nei tuoi libri.
“Mi sono presa la mia libertà e l’ho dichiarato prima, forse sono una voce fuori dal coro ma è impossibile correre dietro a tutte le possibili varianti del dialetto. Il libro è stato pubblicato a Faenza, io sono di Imola, chi legge può risiedere in vari paesi o città, quindi ognuno ha un suo dialetto di riferimento, l’importante è che chi legge capisca il senso dei dialoghi che sono intrisi di modi di dire”.
Chi ti ha fatto la prefazione del libro?
“La prefazione l’ha scritta una ex-collega dello Scarabelli, insegnante di lettere, nata a Bologna, non conosce per niente il nostro dialetto, eppure è un’appassionata dei miei racconti, una mia fan entusiasta che ha colto lo spirito dei racconti. Sarà lei a presentare il libro in Bim il 29 nvembre e io leggerò alcuni miei racconti”.
“Scrittrice di racconti, cercatrice di memorie, instancabile rovistatrice di ricordi, Roberta torna a divertirci con questa nuova raccolta”, scrive Mauro Gurioli della casa editrice Tempo al Libro. Quanto lavoro c’è nei tuoi racconti?
“Ci sono soprattutto tante letture sui temi legati alle tradizioni e alla memoria. Ci sono dei libri che mi sono piaciuti molto, li ho analizzati, mi hanno fatto riflettere poi li ho interiorizzati. Alla fine molto è finito nei miei racconti anche se ho sempre cercato di mantenere un mio stile. Io sono quella che scrive, non altro. Ad esempio non ho quasi mai riportato dei nomi propri, forse un paio e solo nell’ultima foto ho messo il nome della mamma. C’è sempre un filo comune che lega i miei racconti, in libri precedenti sono stati i mestieri, la mia città, le interviste; questa volta sono i modi di dire imolesi degli anni Sessanta, anche perché mi diverte molto scrivere i dialoghi. Anche questi sono altre ‘Pennellate di vita’, che è il titolo del primo libro che ho pubblicato”.
Possiamo parlare di una specie di riscoperta del passato?
“Certo, e questo percorso di scoperta del passato deriva da un dolore, come quando ti muore un genitore. Nel mio caso però ho capito quanto mi mancava la mamma dopo che è morto il babbo, quindici anni dopo. E’ iniziato così una sorta di recupero della memoria. In un racconto faccio dire alla mamma: ‘Dovevo proprio morire presto perché tu mi apprezzassi?”, purtroppo è così. Quando i genitori muoiono presto il rischio è di avere il rammarico di quello che potevi dirgli e fare assieme, ma che non hai né detto né fatto. Per me scrivere è ricostruire il mio passato con questa montagna di tesori. E alla mamma gliel’ho detto per iscritto tanto tempo dopo che è morta, ma è come se l’avessi avuta di fronte mentre scrivevo, così in un certo modo mi sono messa il cuore in pace. Sono sensazioni incredibili scoprire, mentre cammini per Imola, i luoghi dove avevamo vissuto, rivedere i personaggi come fosse oggi, così ho capito che avevo un sacco di cose da dirle e gliele ho dette scrivendo, e questo conta. Questi racconti sono una sorta di risarcimento morale alla sua memoria. Tanto che nell’ultimo racconto del libro in pratica mi sono immaginata che la mamma venisse alla presentazione del libro, quindi è come parlassi con lei di fronte”.
Cosa hai mente per il futuro?
“Al momento nulla di certo. C’è però una storia che è da tempo in un cassetto, che riguarda mia nonna e che vorrei raccontare. Si tratta di un personaggio che si portava dietro molto rancore e che a volte era cattiva e insopportabile. Ma dietro questo suo carattere, spesso intrattabile, c’è tutta una storia, anche di violenze, che vale la pena raccontare, non tanto e solo per una sorta di riabilitazione, ma per dare un’immagine di quella che era la vita delle donne tra la fine dell’800 e i primi decenni del 900”.
Dove trovare il libro
“A chi us’aravìsa?” è uscito a metà ottobre, lo si trova in tutte le librerie del territorio e non solo, si può acquistare online sul sito di Tempo al Libro (https://www.tempoallibro.it/).
Roberta presenta il libro
Oggi, che sono diventata io la vecchia del branco, la custode del fuoco, sono ritornata a rimescolare nella mia memoria, a scrivere e ricamare come mi pare. Io non so se la distanza nasconde, sfuma o aiuta a vedere meglio, so però che la memoria è un elemento instabile, letterario, riscrive continuamente i ricordi, abbellisce, reinventa: si comporta da scrittore, non da storico. Per stimolare quell’angolo meraviglioso ho aperto la scatola che contiene alla rinfusa le foto in bianco e nero della mia famiglia. Foto piccole, unte, sfocate, scarabocchiate, tagliate. Ho rimescolato, rimescolato: uscivano voci, risate. Le ho annusate e guardate con nostalgia sorridente e le storie sono passate dalla memoria alle mie mani sulla tastiera da sole. E così sono nati questi 22 racconti sottotitolati Lessico famigliare romagnolo perché sono ispirati ai modi di dire, alle espressioni, alle battute di una famiglia romagnola-imolese durante gli anni Sessanta. Prendono il via da una frase in dialetto, da ritornelli di tipici momenti famigliari, intercalari, modi di dire di casa mia.
Roberta Giacometti
E’ nata a Imola nel 1958. Ha pubblicato con Bacchilega Editore Pennellate di vita (2006), Un pugno di sogni – dieci racconti anni Settanta (2007), Imola da raccontare – Sguardi ritratti ricordi (2009), Dentro Fuori – testimonianze di ex infermieri degli ospedali psichiatrici di Imola (2009), Quando i bambini disegnavano sui muri (2011), Datemi un vestito (2012), Il mondo dei lavanderi (Piazza editore, 2015), Lavori in corso di Roberta Giacometti – 2005 Maginot Ediz.