“Nel momento della vittoria di un atleta non si vede quasi mai il suo allenatore: sul podio non sale, la medaglia non la indossa, le telecamere raramente lo inquadrano. Eppure, senza allenatore, non nasce un campione: occorre qualcuno che scommetta su di lui, che ci investa del tempo, che sappia intravedere possibilità che nemmeno lui immaginerebbe. Che sia un po’ visionario, oserei dire. Non basta, però, allenare il fisico: occorre sapere parlare al cuore, motivare, correggere senza umiliare. Più l’atleta è geniale, più è delicato da trattare: il vero allenatore, il vero educatore sa parlare al cuore di chi nasce fuoriclasse. Poi, nel momento della competizione, saprà farsi da parte: accetterà di dipendere dal suo atleta. Tornerà in caso di sconfitta, per metterci la faccia”.
Questa frase sembra scritta da un coach o da un esperto di tecniche di allenamento. E’ tratta dall’intervista a Papa Francesco apparsa sulla Gazzetta dello Sport il 2 gennaio 2021, parlando di leadership e senso di squadra.
La leadership descritta da Bergoglio sottolinea l’importanza dell’umiltà della leadership per generare cambiamento.
La leadership deve sapere infatti ben interpretare il corretto equilibrio tra umiltà e carisma.
L’allenatore fa la differenza, ma solo se sa fare squadra. Non se mette in gioco solo il suo carisma. Per far vincere una squadra serve una guida visionaria ed umile che non cerca la ribalta, né gioca “in solitaria”, ma che alimenta lo “spirito di squadra”, la coesione nel gruppo, che è il vero atteggiamento che porta a vincere le partite.
Una leadership inclusiva, che punta l’attenzione sulle persone, ognuna delle quali portatrice di talenti e valori, che “l’allenatore” deve sapere guidare.
C’è sempre più bisogno di queste Leadership agili che sanno anche “farsi da parte” e lasciare esprimere la squadra, dando fiducia al loro stesso lavoro di “costruttori di talenti”. Il loro ruolo è stato segnare la strada. E non per forza facendo il canestro decisivo.
Due esempi mi vengono immediati, ripensando a questi leader silenziosi, che seppero forgiare campioni, stando un passo indietro a loro, ma in realtà essendo nel cuore del loro agire.
La nazionale campione del mondo di calcio del 1982 in Spagna, guidata da Enzo Bearzot, il “vecio” che rimane – nel ricordo di tutti i suoi ragazzi (Dino Zoff e Paolo Rossi per citarne solo due) – il costruttore di uomini prima che di calciatori e di campioni.
Un altro viene dal film “Momenti di gloria”. Harold Abrahams, atleta inglese alle Olimpiadi di Parigi 2024, si era rivolto a un allenatore professionista e per questo era stato duramente criticato, soprattutto dal rettore di Cambridge, la sua università, sostenitore del dilettantismo puro. A Sam Mussabini, il suo coach, era stato proibito l’ingresso allo stadio il giorno della gara: la vittoria di Abrahams sui 100 metri lo renderà ancora più orgoglioso del lavoro compiuto. Una sua frase celebre: “Pensa solo a due cose: la pistola e il nastro. Quando senti l’una, corri come un matto finché non rompi l’altra“. Allora il vincitore era colui che per primo tagliava il filo di lana sul traguardo.
Come ci ricorda Michael Jordan: “Il talento fa vincere le partite, ma l’intelligenza ed il lavoro di squadra fanno vincere i campionati”.
(Tiziano Conti)