Con il sopraggiungere delle prime ore della sera le lunghe disfide con le cerbottane nella valle delle quaranta grotte volgevano al termine. Ho ricordi abbastanza vivi al riguardo: più o meno in disordinata fila indiana ci incamminavamo verso l’uscita della piccola e stretta valle, varcavamo il piccolo corso del rio Rondinella e raggiungevamo il luogo, abbastanza distante dalla strada che poi ci avrebbe portato, in discesa, verso la curva del “catino”, poi, altra discesa, fino all’angolo del bar Renzo e quindi al viale Dante dove, inevitabilmente ci si divideva. Il tratto dell’odierno circuito del Santerno, allora era aperto al pubblico e si percorreva regolarmente.

Raramente, lungo tutto il tratto del ritorno, uscivamo in commenti o dispute circa le “battaglie” sostenute nel pomeriggio: dentro tutti noi il rimorso degli errori “strategici” occorsi, l’orgoglio della vittoria se ci aveva sorriso e, ma non da ultimo, il desiderio di ritrovarsi il pomeriggio del giorno dopo.
La guerra con le cerbottane (noi le chiamavamo “siluri”) era semplicemente una scusa, ma il vero desiderio risiedeva nello stare insieme, nel ritrovarci accomunati nella bramosia del gioco, nel piccolo regno, tutto nostro, di quella piccola valle abbandonata e silenziosa.

Qualche “ciao” occasionale e gettato indirettamente; l’appuntamento era, inevitabilmente, per la serata, ovviamente, al bar Renzo.
Ci si ritrovava che ancora la luce del giorno aveva la meglio (a quei tempi l’ora legale era da divenire) e ci si ritrovava attorno a due tavoli affiancati e ci si interrogava circa la disponibilità di denaro: qualche bibita con il ghiaccio tritato si doveva comperare, ma non tutti si ritrovavano qualche soldo in tasca.

Iniziava, subito dopo, la ricerca del programma della serata: una vagabondata di gruppo verso la pista delle Acque Minerali, un lento “su e giù” per viale Dante, a casa di qualcuno di noi per un’interminabile partita a “sette e mezzo” o, molto frequente, la lunga chiacchierata attorno al tavolo, fra lazzi, invettive verso ora l’uno o l’altro, chiacchiere circa l’ultima coppietta estiva e qualche pausa di silenzio: il vero scopo era lo stare insieme e che la serata non finisse mai.

Non ricordo da chi provenisse l’idea, né il come o il chi determinasse la nascita dell’idea, ma fatto sta che la proposta di una passeggiata all’interno della “nostra” valle di notte venne gettata sul tavolo! La memoria mi restituisce l’immagine indimenticabile dei visi dei miei compagni, amici e chissà cos’altro: un paio di sorrisi appena abbozzati, qualche espressione interrogativa poi, poi uscirono tre o quattro “Dai!” che ne decisero la sorte.

Ci si ritrovava molto presi da questa proposta decisamente “nuova” ma anche pensierosi circa l’avventura: fino alla curva del “catino” qualche lampione, una sola luce dove la strada lasciava il percorso del circuito in cima alla salita che portava alla curva della Tosa poi il buio più completo. Per non parlare della gola delle grotte…

Ovviamente nessuno fece presente le difficoltà legate a queste realtà “elettriche”: e che diamine, mica si erra più poppanti, e tanto meno bimbetti! Insomma, quasi ometti.
Queste le considerazioni dentro la mente di tutti noi, mentre si cercava, negli occhi degli altri una luce di risposta che non poteva arrivare se non da ciascuno di noi.

Qualche attimo di silenzio che ancora rivivo, dopo tanti anni, con un’intensità sovrastante e debordante poi, non ricordo da parte di chi, uscì un “Dai”, poi un altro: tutti in piedi verso le biciclette e via! Ovviamente la quasi totalità dei mezzi era privo di illuminazione, vuoi per totale mancanza dell’impianto (finte bici da corsa), vuoi per lampade fulminate e per porta lampade sottratti o incidentate: una lunga fila di intrepidi giovanotti fu vista arrancare lungo viale R,emo Galli: delle quattro biciclette due erano “bi-posto”, una con lumino rosso posteriore funzionante e due (ben due!) fanali anteriori che lanciavano fasci di luce dall’aspetto vincente.

Non so se per lo sforzo della salita (due in vero) o per l’insolita avventura ricca di incognite, ma non si riuscì a udire parola fino all’arrivo dell’imbocco del sentiero dove trovammo degna sede per le biciclette.
Ora si trattava di partire senza indugi verso l’avventura e si trattò di comporre l’ordine di marcia. Fu Ivo, marrano, che individuò proprio in me il più adatto come “comandante” e non ricordo verbo contrario.

Eccomi incastrato tra un incarico da “comandante” e una leggera tremarella diffusa nelle ginocchia e nelle mani non compensata dall’onore dell’incarico. Con un leggero spirito di vendetta (Ah! Tremenda vendetta!) me ne uscii con il nome dell’ultimo della fila (altro punto assai debole) che altri non poteva essere se non il primo dichiarante! Il silenzio da parte degli altri cinque decise la composizione della fila e si partì.

Si trattava di scendere lungo il fianco di un vigneto ben tenuto e curato (più volte il povero contadino aveva cercato di intervenire nell’interdizione, minacciando punizioni a suon di vergate di rami di salice e altre varie minacce, poi costeggiare il rio Rondinella fin dove curvava con decisione verso il parco delle Acque Minerali: lì si doveva varcarlo, costeggiarne la sponda opposta per una cinquantina di metri poi prendere a destra verso l’imbocco della gola.

Quante volte quel percorso! Al giorno d’oggi il rio ha scavato un solco ben più profondo e all’imbocco del sentiero lungo le coltivazioni, fa bella mostra di sé un cartello di “Proprietà privata” ma sono cose d’oggi! Quel posto, quel percorso, quei sentieri, quella ristretta valle erano nostri! Nostri e di nessun altro. Punto!

La notte era quasi senza luna e quel piccolo spicchio di possibile luce era più o meno sempre nascosto dagli alti pioppi e da qualche quercia.
Io avanzavo con un passo che sembrava baldanzoso e sicuro, ma era grazie alla spinta indiretta di quanti mi seguivano nella ripida discesa cercando di intravvedere piccole tracce tra le memorie del percorso.

Quando raggiungemmo il “guado” fu il primo ppnto di presa di coscienza della difficoltà oggettiva: non si riusciva a intravvedere nulla, ma deciso era il gorgoglio dovuto allo scorrere delle acque: quel ribaldo del Rondinella era ben fornito d’acqua, marrano, mentre, normalmente, nel periodo estivo mostrava unicamente il ricordo dell’acqua!

Riuscii a passare quasi indenne (il mio piede sinistro ad un certo punto si posò su di un fondo non propriamente solido), ma dietro di me si udì distintamente un clamoroso “porca vacca” e una irripetibile bestemmia determinata da una vistosa cilecca nell’individuare l’appoggio corretto del piede e finalmente tutti raggiungemmo la sponda opposta.

La fila si ricompose alla bene meglio e si ripartì verso l’imbocco della stretta valle. Fu allora che un vistoso fruscio raggiunse le nostre orecchie: fronde rumorosamente mosse immediatamente seguite da un forte sbattere di ali: non ci fu bisogno di dare il segnale di alt né di proporre attenzione.
Ci arrestammo tutti irreversibilmente consci della vulnerabilità che ci sovrastava e della derivante impotenza. Poi lo sbattere di ali ci fu sopra e ancora una volta non occorse il grido di “A terra! “per ritrovarci tutti distesi disordinatamente sull’erba in spasmodica attesa di eventi!

– Ma era un uccello! Si udì.
– Ma era grosso! A seguire.
– Un gufo! Un gufo grosso!
– Ma perché ci è volato sopra? Ci ha scambiati per un topo!
– Si, un topo, un po’ grosso.

Qualche stentata risatina, ma il “fatto” era accaduto. Mai l’avremmo ammesso ma ci ritrovammo “esposti e indifesi” nel bel mezzo di un’avventura forse un po’ più impegnativa e grande di noi: i valorosi contendenti a suon di siluri e strategie di attacco o difesa si ritrovavano deboli e indifesi immersi nel buio e presi di mira da misteriosi animali della notte!

Io mi sentivo “comandante” e lo ero in quanto fresco di nomina e, ricordo molto bene, indicai a voce e a gesti la via del ritorno: non ci furono obbiezioni o ripensamenti: la ritirata strategica andava più che bene a tutti. Il guado mi consentì di lavare la scarpa precedentemente lordata dal fango e, per l’occasione, si “lavò” anche il calzettino… e senza altri incidenti raggiungemmo le biciclette.

Fu un ritorno silenzioso, del resto come l’andata, ma l’assenza di parole denunciava apertamente la sconfitta: ritornavamo sconfitti dall’impresa e il silenzio di tutti denunciava apertamente la situazione. Anche nelle giornate che seguirono i commenti ed il ricordo di quell’avventura notturna non trovarono posto tra i nostri scambi di lazzi o sberleffi: la verità risiedeva nell’inconfutabile vicenda che ci aveva trovati impreparati e indifesi verso un’impresa forse un po’ troppo “grande” per noi.

Ancora pochi giorni, le ultime corse sui pattini nella pista delle Acque Minerali, le ultime battaglie nella valle delle quaranta grotte (i quaderni del precedente anno scolastico stavano per terminare…) e l’ingiallire delle prime foglie sugli alberi ci avvertivano dell’arrivo dell’autunno e l’inizio del nuovo anno scolastico.

Un altro inverno, lungo e freddo, ci avrebbe allontanato, per sempre, da queste splendide giornate e notti di avventure. Poi, i primi veri contatti con le ragazzine, divenute ragazze, avrebbero finito per allontanarci, per sempre, dai giochi e dai lazzi di quelle giornate spensierate e, in qualche modo, ricche di colori, di profumi e, ora, di ricordi.

(Mauro Magnani)