Se in Italia, in caso di mancata approvazione della legge di bilancio in parlamento, lo Stato può continuare a funzionare grazie al cosiddetto “esercizio provvisorio”, negli Stati Uniti il governo chiude quando spende tutti i soldi stanziati dal Congresso prima che ne vengano assegnati degli altri.
I Repubblicani hanno la maggioranza alla Camera e stanno per subentrare alla Casa Bianca: il modo in cui hanno gestito questa trattativa può dirci qualcosa di quello che ci aspetta.
L’accordo che il Congresso ha votato, evitando che il governo statunitense finisse i soldi, non è una vera legge di bilancio: stanzia fondi sufficienti fino al 14 marzo, quando il problema si porrà di nuovo. La ragione di questo caos è la stessa per cui negli Stati Uniti – ma anche in molti altri paesi – da un paio di decenni queste liti hanno regolare frequenza ed è diventato difficilissimo approvare vere riforme strutturali.
Cittadinanza, armi, diritti civili, sono bloccate da decenni: i pochi cambiamenti passano sempre più da corti e tribunali, perché il parlamento non riesce più a legiferare. Il sistema politico americano, infatti, fu il primo al mondo ad attuare la separazione descritta da Montesquieu tra il potere legislativo, esecutivo e giudiziario: per evitare che la maggioranza schiacciasse la minoranza, fu costruito in modo da costringere i partiti a collaborare.
Non è che fino a mezzo secolo fa non si litigasse o esistesse un unico partito, ma la mancanza reciproca di fiducia dei nostri tempi era inesistente, le posizioni più estreme erano poco rilevanti: ogni governo non sentiva il dovere di cancellare quanto fatto da quello precedente.
Questo meccanismo ha smesso di funzionare: il risultato è l’immobilismo.
Alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti è avvenuta la trattativa per evitare lo shutdown, il blocco delle attività federali. Dopo qualche settimana di negoziati, un accordo era stato trovato, con una specie di “decreto milleproroghe all’americana” che si pensava che avesse anche l’approvazione di Donald Trump.
Ma qui è entrato in gioco l’uomo più ricco del mondo, quello del “via i giudici” italiani della questione Albania o dell’invito ai tedeschi di votare il partito di estrema destra AFD.
Alle quattro del mattino ha pubblicato un tweet che criticava l’accordo, poi ne ha scritti più di centocinquanta in poche ore. I toni di Musk erano gravissimi: l’accordo è terrificante e pieno di cose scandalose e superflue, chi lo vota è un delinquente e così via. Ovviamente i suoi tweet erano pieni di fake news: sugli gli stipendi dei parlamentari, su altri miliardi all’Ucraina, ed anche altro.
Se uno che ha speso 44 miliardi di dollari per comprarsi Twitter e appena 250 milioni per comprarsi il comitato di Donald Trump si mette di traverso, allora i deputati ne tengono conto. Infatti uno dopo l’altro decine di deputati Repubblicani hanno ritirato il proprio sostegno all’accordo.
Il leader repubblicano della Camera, Johnson, ha messo insieme allora una legge molto più scarna, come quella che chiedeva Musk, con le sole misure essenziali per tenere in piedi il governo, almeno fino al passaggio dei poteri il 20 gennaio prossimo.
I Repubblicani hanno provato a votarsi l’accordo da soli e pur avendo la maggioranza non ci sono riusciti, perdendosi per strada ben 38 dei loro voti.
Alla fine, mancavano letteralmente pochi minuti alla mezzanotte, termine ultimo per evitare lo shutdown, l’accordo è stato votato anche dai Democratici ed è passato soprattutto perché a notte fonda Musk aveva smesso di twittare: nel testo approvato anche l’eliminazione delle restrizioni ai suoi investimenti in Cina.
Come diceva Alcide De Gasperi: “Un politico pensa alle elezioni, ma uno Statista alle prossime generazioni!”
(Tiziano Conti)