Era l’unica che portava un casco rosa a pois. E aveva un motto: Always say yes. Dite sempre sì. Alla vita, alle occasioni, al destino. “Vi chiedono di andare da qualche parte e di fare qualcosa? Provate, assaggiate, sperimentate”. Per tutti era Motorcycle Mary, titolo del documentario presentato lo scorso giugno in anteprima al Tribeca Film Festival 2024, diretto da Haley Watson e prodotto da Lewis Hamilton, 7 volte campione del mondo in Formula 1 e nuovo pilota della Ferrari.
Mary McGee è stata una pioniera delle due ruote, anzi un’avventuriera delle corse. C’è un articolo che parla di McGee nell’edizione di gennaio del 1962 dello storico magazine americano Motor Trend. Lei nella foto sorride, ha i capelli chiarissimi, corti e ricci. È alta (1.80) e atletica. Non sembra timida, anche se lo è, ma non in pista, al volante o in sella, per trasformarsi le basta cavalcare un motore. Ha 26 anni in quell’inizio del 1962 e la sua carriera come pilota, nelle corse automobilistiche prima e in quelle motociclistiche poi, è già iniziata da tempo.
Nella rivista si parla della “rivolta delle casalinghe”, di donne che non stanno più a casa a cucinare e a crescere i bambini. Lei invita tutti a scappare, anzi ad accelerare: “Se la vostra vita è monotona e siete annoiati dal traffico in autostrada, non arrendetevi. Comprate una moto e unitevi a Mary McGee”.
Mary Bernice Connor nasce nel 1936 a Juneau, in Alaska. Suo padre abbandona presto la famiglia, sua madre infermiera invece è costretta a restare nello stato durante la Seconda guerra mondiale perché l’Alaska è considerata il possibile luogo di un’invasione giapponese.
Mary e suo fratello maggiore, Jim, vengono mandati a vivere con i nonni a Harpers Ferry, una piccola città nel Nord-Est dell’Iowa. Jim le insegna a fare un respiro profondo ogni volta che si sente nervosa. “Ho imparato a non preoccuparmi”.
Dopo la guerra la famiglia si trasferisce a Phoenix in Arizona dove Mary nel ’54 si diploma al liceo e si sposa con Don, l’uomo della sua vita, meccanico esperto, pazzo dei motori. Si trasferiscono in California. Il fratello intanto ha iniziato a correre in auto, lei lo accompagna alle corse e ne resta affascinata. “Do you wanna drive in the Porsche?“, “Vuoi guidare la mia Porsche?” le chiede un giorno Jim.
Mary ne è spaventata, ma dice sì. “Provo a fare un paio di giri”.
È il ’57. Va che è una meraviglia, vince la gara femminile alla guida di una Mercedes 300SL per lo Sports Car Club of America. Vasek Polak, proprietario di un team automobilistico, la nota e le chiede: ti va di provare una delle mie Porsche Spyder? È sì. Poi tocca a un amico: ha necessità di vendere una Triumph Tiger Cub da 200 cc del 1956 che fa fatica ad accendersi, vuole acquistarla? Un altro sì.
E quando sempre Polak le suggerisce di tentare con le motociclette, è ancora sì. Siamo nel ’60. Ci si mette a una festa di Capodanno a Manhattan Beach anche Steve McQueen, proprio lui, l’attore appassionato di velocità, il ribelle di Hollywood: perché non lasci le “pansy road-racing” e non passi all’endurance, nella mia squadra? Sì, why not? L’off-road sarà anche più divertente, ma è molto impegnativo.
La prima esperienza in sella a una Honda Scrambler 250 è terribile: neve e freddo. “Sull’asfalto non mi stancavo mai, ma nel fango e su una dannata moto da cross ero esausta”. Viene incoraggiata a iscriversi alla Baja 500, una gara fuoristrada messicana nella penisola della Bassa California. Oltre 40° di temperatura, rocce, rovi, cespugli, solchi, pendii montuosi e canyon desertici. Nel 1975 Mary non solo taglia il traguardo, ma diventa la prima persona a completare la prova in solitaria.
“Niente elettricità, niente medici, niente telefono”. Corre su una Husqvarna 250, moto svedese, le scoppia l’ammortizzatore destro, la ruota posteriore perde tutti i raggi, finisce contro un cactus. Ma su 365 piloti arriva 17esima, la prima a riuscirci senza un compagno. “Continuavo a dirmi: stai calma e dai gas”. Allora le Iron Women non andavano di moda. Gli altri corridori non sanno cosa farsene di lei.
“Non ero la loro sorella. Non ero la loro madre. Non ero la loro ragazza. Quindi cos’ero?”. Una pilota, verrebbe da dire. Peccato che all’inizio la Federazione motociclistica americana (Afm) non prevedesse trofei al femminile nelle auto e per le due ruote le impongono di passare un test, nonostante corra da tempo, giusto per complicarle la vita. Diventa così la prima donna negli Usa a ottenere una licenza federale per le gare di motociclismo. Sapeva che sarebbe stata considerata una di seconda classe. “Ma non ci facevo caso perché mi stavo divertendo troppo”.
Non la ferma nemmeno nel ’64 la morte del fratello in una competizione in California. “È colpa dell’auto non del pilota”. Lei stessa è coinvolta in un brutto incidente, a New York viene investita frontalmente da un’auto in autostrada, arriva in ospedale e tra fratture e traumi scopre di essere incinta. Le ci vorrà un anno per riprendersi ma Proud Mary continuerà a gareggiare e a presentarsi alle corse con figlio e marito. Nel ’76 divorzia, dopo vent’anni di matrimonio, questo sì è un brutto colpo, smette con le competizioni, diventa responsabile vendite per la rivista Motorcyclist, però non scende dalla sella, si trasferisce nel Nevada e si iscrive agli eventi di motocross vintage. Riassumeva così la sua vita: “Ho iniziato a correre in auto nel 1957, poi sono passata alle motociclette nel 1960 e ho smesso nel 2012”.
McGee se n’è andata a novembre, a 87 anni, per le complicazioni di un ictus. Un giorno prima che uscisse su una piattaforma il suo documentario. Certe donne hanno proprio fretta. In un’epoca in cui ti educavano a pensare che a certe cose dovevi dire no, perché non fanno per te, lei era stata la signora del sì. Yes, I can. Sapeva che guidare fuoristrada è massacrante, che bisogna sporcarsi le mani, e che per essere al volante della propria vita si paga un prezzo. Freedom’s just another word for nothin’ left to lose. “Libertà è solo un’altra parola per non avere niente da perdere”. Sotto il casco rosa a pois c’era una testa.
(Tiziano Conti)