L’Ires Cgil, in collaborazione con la Camera del Lavoro metropolitana di Bologna, Arci Bologna, Piazza Grande, Link-Studenti indipendenti e Rete degli universitari-Udu ha realizzat0 un’inchiesta sociale che ha significativamente presentato con il titolo “Città del lavoro o della rendita?”. A Gianluca De Angelis, uno dei curatori della ricerca abbiamo chiesto di sintetizzare i risultati.
Il focus dell’inchiesta è quello della diseguaglianza. L’esigenza di un’indagine di questo tipo è nata dal fatto che i dati statistici ufficiali che usiamo normalmente non permettono di cogliere la sostanza di un complessivo arretramento del lavoro rispetto alla possibilità di garantire una vita dignitosa.
Chiaramente, non trattandosi di un’indagine con un campione rappresentativo, lo scopo non era quello di misurare la povertà, ma quello di mostrarne la pervasività. La carenza di risorse investe infatti la persona a 360 gradi, in tutte le sfere del vivere sociale. Già a partire dalla scuola abbiamo osservato le differenze nei criteri di scelta dei percorsi educativi e formativi che le famiglie mettono in campo per i loro figli e figlie. Chi ha più risorse sceglie quei percorsi che più facilmente potranno permettere ai propri figli di mantenere quel vantaggio che oggi è dei genitori. Anche nell’accesso ai servizi per la salute si sono osservate distanze importanti. A fronte di una complessiva crisi del sistema sanitario che inevitabilmente incide sulle lista di attesa, chi può si rivolge al privato, mentre chi non può rinuncia alla prestazione di cui avrebbe bisogno. Anche in questo caso la carenza di risorse accresce il tasso di rinuncia, lasciando che sia proprio chi è più esposto a condizioni di salute peggiori a dover rinunciare ad una prestazione.
In questo quadro, come anticipavamo, il lavoro non basta a colmare le distanze. Al contrario, con le sue frammentazioni il mercato del lavoro finisce per acuire le distanze sociali. Da un lato l’età e il genere, dall’altro le differenze tra quei settori, di solito manifatturiere, in cui le remunerazioni sono più elevate e continue e quelli a basso salario e precari, più spesso nel commercio e nei servizi privati, ma anche nei servizi pubblici, quando questi sono svolti per enti del terzo settore. è proprio in questi segmenti, dove il lavoro potrebbe valere di più proprio per la sua importanza sociale, che si concentra una maggiore propensione all’abbandono. Il rischio di abbandono riguarda anche il territorio, metropolitano e regionale. Quando infatti non si ha una casa di proprietà, le difficoltà nella ricerca di un’abitazione spingono i più giovani e i più poveri verso l’espulsione.
L’Inchiesta è stata anche l’occasione di un doppio focus sui pensionati e le pensionate: quello sulla cura, quella offerta e quella ricevuta, e quello sul digital divide. Se infatti la persona più anziana è solitamente presa in considerazione per i bisogni espressi, con l’inchiesta abbiamo mostrato come chi è in pensione è una risorsa ineguagliabile per la propria famiglia. Lo è in termini economici, quando questo è possibile, ma lo è anche nei termini del supporto quotidiano che i pensionati e le pensionate offrono alle famiglie dei propri figli e figlie. Anche in questo caso però le distanze socio-economiche fanno sentire il proprio peso. Se a tutti i livelli socio-economici sono i pensionati e le pensionate a garantire un supporto economico ai propri figli, in quello più basso la quota di chi ha bisogno di aiuto è sì minoritaria, ma più elevata. Soprattutto in questi casi, il supporto si fa pratico, nel quotidiano, ma questo significa anche ridurre la possibilità per i più anziani di svolgere quelle attività e seguire quegli interessi che potrebbero far bene per la socialità e il benessere mentale. Chi ha meno, infatti, finisce per avere meno hobby e svolgere meno attività.
(Gianluca De Angelis)