Ashi allungò la mano guantata e premette un pulsante.
«Capo, ci sei?» chiese un paio di volte.
Fra echi di fischi e scoppiettii vari si fece strada una voce dal tono infastidito.
«Che c’è?»
«Ho quasi finito.»
«Bravo», disse la voce, «allora che vuoi? Non sei in grado di tornare a casa?»
«No no», rispose Ashi precipitoso. «Volevo dire: ‘allora chiudo la missione’.»
«Mi sembra di essere all’asilo», continuò la voce, come parlando fra sé e sé. «Questa nuova generazione non ce la fa a crescere ma è colpa nostra. Li abbiamo tenuti troppo al caldo nelle serre.»
«Chiudi tutto e mettiti a dormire», disse poi in tono più pacato, quasi paterno.

Il tecnico ricercatore Ashi era alle prese con la sua prima missione intergalattica e si trovava in trasferta sul pianeta Terra in quanto esperto analista di terreni ricchi di minerali. Come pilota, invece, si sentiva parecchio imbranato, soprattutto perché era la prima volta che guidava una navetta iperspaziale. Non che ci fosse molto da fare, era tutto automatizzato, ma il sapersi da solo all’interno di un veicolo quasi sconosciuto gli metteva ansia. E se si guastava qualcosa? E se si sentiva male? Cose così.

Era quasi al termine del lavoro; nel giro di qualche ora avrebbe inserito il comando per il rientro alla base. Si sarebbe steso in una capsula a umidità controllata e avrebbe dormito il sonno dei giusti fino al suo pianeta.
Ma per il momento sostava in uno spiazzo alberato, a bordo del suo razzo perfettamente mimetizzato da veicolo terrestre.

Su questo pianeta fanno le cose in grande, pensò mentre alzava lo sguardo ad ammirare un edificio di aspetto imponente, in fondo al parcheggio. Era stanco e si distraeva facilmente ma doveva ultimare la catalogazione se voleva partire quel giorno stesso.

Man mano che terminava di esaminare una zolla di terra la chiudeva in un barattolo dalla trasparenza opaca, sul quale incollava un’etichetta prestampata, poi prendeva una specie di bacchettina dalla punta luccicante, la puntava sul barattolo e questo scompariva per ricomparire sullo scaffale di un magazzino, su un altro pianeta, dove il suo capo lo avrebbe poi prelevato e spedito in laboratorio per ulteriori analisi.

Si interruppe per prendere una catino pieno di terriccio, raccolto il giorno precedente, che gli era apparso particolarmente invitante. Ci immerse le radici e sospirò di piacere. Ancora un campione da spedire e si sarebbe tolto la sovrapelle da umano che gli limitava la traspirazione.

Si sfilò un guanto e socchiuse il portello del veicolo per un ricambio di aria.

Le sorelle Tavassi adoravano andare in gita. La loro meta preferita erano le città d’arte, purché non distassero troppo dal paese dove abitavano.

Pensionate – maestra elementare Adriana e impiegata comunale Mariarosa – e benestanti, signorine (o zitelle come si diceva una volta) vivevano in una villetta liberty alla quale somigliavano, nei dintorni di un borgo tra le colline romagnole. La provincia e l’età avanzata non avevano limitato i loro interessi culturali.

Conoscevano a memoria Bologna, Ferrara, Firenze e specialmente Ravenna, che amavano in modo particolare soprattutto perché era la più vicina a casa. Viaggio breve e divertimento assicurato. A condizione che la gita si svolgesse in un giorno feriale, così c’erano meno turisti in giro. Alla organizzazione delegavano una agenzia viaggi, la stessa da sempre e l’unica del paese, alla quale si rivolgevano confidenti come se fosse appartenuta a qualcuno di famiglia.

L’agenzia, dal canto suo si applicava con impegno per accontentare quelle fedeli clienti che volevano viaggiare col minibus, infrasettimana, con pochi e scelti compagni di viaggio di preferenza pensionati benestanti come loro, con l’accompagnatore a disposizione, sempre lo stesso mi raccomando, il pranzo in un ristorante quasi stellato, andata e ritorno in giornata e spazio a sufficienza sul pulmino da poter allungare le gambe sotto i sedili e fare un pisolino dopo mangiato.

Quel giorno avevano prenotato il tour a Ravenna e aspettavano, come d’abitudine, il minibus fuori dal cancello di casa, nello splendore di una mattinata di tarda primavera. Il pulmino arrivò con un quarto d’ora di ritardo ma Adriana e Mariarosa non se la presero più di tanto. Si erano vestite e truccate alla perfezione, non un capello fuori posto, dalla parrucchiera il giorno prima, la collana di perle coltivate una, gli orecchini di granato l’altra, in attesa di dedicarsi all’adorazione dell’accompagnatore e Guida Alfonso Cenni, richiesto come conditio sine qua non, splendido esemplare di giovane maschio poliglotta del quale erano tutte e due un poco innamorate.

Quando la portiera del minibus si aprì una voce sconosciuta le accolse.
«Buongiorno, scusate il ritardo, Alfonso ha avuto un imprevisto e lo sostituisco io. Mi chiamo Carla e sarò la vostra Guida, per oggi. Il programma non è cambiato e vi do il benvenuto a bordo.» concluse la voce con una risatina chioccia.

Con disappunto, ma senza un immediato pretesto per rinunciare le sorelle Tavassi salirono sul monovolume. L’agenzia le avrebbe sentite, l’indomani.

«Ma ti pare una voce adatta a questo lavoro?» sussurrò Mariarosa all’orecchio della sorella.
«Vecchia cornacchia.» sussurrò Adriana.

La prima tappa della giornata era la Chiesa di Santa Apollinare in Classe.
Le due signorine conoscevano a memoria ogni particolare storico e artistico della basilica e, in mancanza del beniamino Alfonso, ascoltavano a malapena quello che diceva la nuova Guida e solo per coglierla in qualche errore o contraddizione.

L’occasione arrivò quando Carla disse: «Questo mosaico è datato settimo secolo…» non fece in tempo a finire la frase che Mariarosa, ansiosa di contrastarla saltò su con tono saputello: «Guardi che si sbaglia.»
Al che la Guida la fulminò con un’occhiata.
«No, non mi sbaglio.»

Ma Mariarosa, stizzita fin dalla partenza, avrebbe utilizzato qualsiasi pretesto per questionare. Cercò lo sguardo complice della sorella a sostegno della sua tesi, non lo trovò e questo la fece imbizzarrire.
«No, Alfonso ha detto un’altra cosa» e alzò la voce di parecchi toni.

La Guida, a quel punto, mise l’indice davanti alla bocca.
«Per favore, signora, parli piano.»
«Ma come si permette?» gridò quasi Mariarosa, «Non sono mica una bambina delle elementari.»

Adriana, che conosceva bene sua sorella, la trattenne per una manica e le parlò piano all’orecchio.
«Dai, calmati, non te la puoi prendere per una cosa così da poco. E comunque ha ragione lei.»
«Devo andare in bagno», disse Mariarosa cambiando argomento di botto.
Fecero un cenno alla Guida e si separarono dal gruppo.

Uscite dal bagno si diressero al parcheggio. Mariarosa si era calmata ma non del tutto e decisero che avrebbero aspettato gli altri sul minibus. La portiera era socchiusa, segno che l’autista era dentro.
«Menomale», disse Adriana.

Il tecnico ricercatore Ashi si girò verso le due donne.
«Cazzo», disse nella sua lingua, che alle sorelle Tavassi sembrò piuttosto un alito di vento.
«Questo non è il nostro minibus» disse Mariarosa guardandosi intorno. «Cos’è?»

Foto di Julius H. da Pixabay

L’interno della navetta iperspaziale era quello che normalmente definisce l’interno di una navetta iperspaziale. Consolle, bottoni, levette, monitor, cavi, luci rosse, verdi, gialle. Con l’aggiunta di un uomo molto giovane e molto bello, quasi come Alfonso, che sorrideva loro mentre cercava disperato un bottone dietro di sé.

«Capo, capo, per favore…» la sua voce somigliava a uno stormire di fronde e non spaventò le due donne.
«Che diavolo c’è ancora? Non hai finito?» un fruscio di foglie secche uscì da una specie di graticola appesa al tettuccio.
«Ho finito capo, stavo per partire ma due alieni, pardon, terrestri, sono entrati in cabina, cosa devo fare?
«Militari o civili? Come hanno fatto?»
«Civili, credo. Io ho, ehm… lasciato il portello aperto.»
«Imbecille», disse il capo in un soffio. «Falli scendere subito. Senza casino, mi raccomando.» aggiunse interrompendo la comunicazione.

Nonostante la mancanza di esperienza e il temperamento flemmatico Ashi ebbe la prontezza di avviare un commutatore vocale preprogrammato nella eventualità di incontri ravvicinati di qualche tipo.
«Buongiorno signori», disse senza sapere quello che diceva. «Siete i benvenuti, in che modo posso aiutarvi?»

La tuta da umano in similpelle gli si stirava in un sorriso troppo largo, fisso sulla faccia.

Fossero state due ragazzine Adriana e Mariarosa Tavassi, non ci sarebbero cascate nemmeno per un secondo, ma due signorine parecchio in là con gli anni, con poca esperienza alle spalle, sensibili alla giovinezza specie se maschile rimasero fulminate.

«Scusi», disse Mariarosa ansiosa di mostrarsi donna di mondo, «questo è un laboratorio scientifico mobile, immagino.»
Ashi respirò di sollievo, forse sarebbe stato più facile di quanto aveva immaginato in un primo momento.
«Da quale università viene?» si intromise Adriana, «Da Bologna?»
Wow, pensò il tecnico ricercatore Ashi, fanno tutto loro, che popolo dev’essere questo.
«Buongiorno signori» ripetè il convertitore vocale.

Adriana e Mariarosa, quasi incastrate nel piccolo spazio libero da strumentazione girando su sé stesse facevano domande, si davano risposte e, cosa assolutamente riprovevole, toccavano tutto.
«Per favore non toccare», disse il convertitore vocale, «è molto pericoloso. Potrebbe esplodere.»

La frase magica era stata pronunciata e le signorine Tavassi si fermarono d’incanto come due bambole con la molla scarica.
«La lasciamo lavorare», disse Adriana già girata verso l’uscita.
«Buongiorno signori», disse il convertitore vocale attraverso il sorriso fisso del tecnico ricercatore Ashi che si affrettò a chiudere il portello della cabina non appena le due signore ebbero rimesso i piedi a terra.

«Capo?» disse nella griglia del trasmettitore, «tutto a posto. Sono andati.»
«Allora parti, dannazione» disse il capo.
«Che bel giovane» stava commentando Mariarosa.
«Sì», convenne Adriana ridacchiando, «molto bello. Un po’ rigido ma immagino fosse imbarazzato a vederci piombare lì mentre stava facendo un pediluvio.»
«Aveva una mano verde, hai notato? Forse era malato.»
«Contagioso, dici?»

Il silenzio che si era creato su questo sospetto fu interrotto da Mariarosa.
«Ti arrabbi se ti dico una cosa?»
«Non cominciare», disse Adriana, «prima dimmi che cosa poi decido se arrabbiarmi o meno.»
«Allora non te lo dico.»

Adriana sospirò, sua sorella aveva assunto il tono ansioso di una bambina che sta per mettere il broncio. Faceva sempre così.
«Santa pazienza, no, non mi arrabbio. Allora, cosa hai fatto?
Mariarosa mise una mano in tasca e ne trasse una specie di stilografica dalla punta luccicante.
«Per la mia collezione di penne» disse a mo’ di giustificazione

Adriana andò su tutte le furie.
«Riportala subito indietro, ma cosa hai nella testa? Una volta non avresti mai fatto un’azione del genere.» E per far vedere che non scherzava si girò verso il pulmino bianco dal quale erano appena scese. Ma quello se ne era già andato.
Quante storie per una penna, pensò Mariarosa. La rimise in tasca e non ci pensò più.

Se ne dimenticò fino al mattino dopo quando andò per riporre nell’armadio la giacca indossata il giorno precedente.
Sola, con calma, rimirò l’oggetto sottratto nel laboratorio.

Oh, ma guarda che bella stilo. Bella, proprio bella, continuò a ripetersi piena d’ammirazione, diversa. Si accinse a provare lo scorrimento del pennino sul foglio in tutta comodità, perciò si sedette alla scrivania e prese il block notes con le nuvolette azzurre. Non c’era nessun pulsante da premere ma le bastò stringere la penna fra le dita e indirizzare la punta brillante verso il blocchetto che questo scomparve.

In un primo momenti si stupì, poi subito si spaventò perché si riteneva una persona razionale, sana di mente e sapeva che certe cose non accadono e punto.

Oppure accadono in presenza di malattie gravi. Esaurimento, cancro, Alzheimer. Compose mentalmente un elenco di infermità spaventose, poi aprì un cassetto della scrivania e, in assenza del block notes con le nuvolette azzurre, chissà dove lo aveva messo, prese un quaderno di ricette scritto solo in parte, lo apri a una pagina bianca, puntò la penna, strinse le dita e il quaderno svanì.

Questa volta Mariarosa rimase solo stupefatta.

Cercando di mantenere la vista a fuoco nell’esatto punto dove erano spariti il blocco e il quaderno allungò una mano e a tentoni afferrò la rivista di giardinaggio che sapeva appoggiata sull’angolo della scrivania alla sua sinistra; mise il giornale sotto la penna, strinse e la cosa si ripeté: sparita anche quella.

Si fece prendere dall’euforia e fece fuori, nell’ordine: la scrivania stessa, una sedia, poi retrocedette in cucina dove fece sparire il pollo che aspettava di essere messo in forno e due pensili che non era intenzionata a far sparire ma quell’accidente era molto delicato da maneggiare.

Sovreccitata al massimo sentì la porta che si apriva e corse incontro ad Adriana che rientrava da una commissione.
«Adri», farfugliò Mariarosa allungando la penna davanti a sé, «il laboratorio, ieri, bel ragazzo, bacchetta magica…»
E al posto di Adriana Tavassi ci fu solo la porta d’ingresso in fondo al corridoio.

«Gridava così tanto che la vicina ha chiamato il centodiciotto, le hanno dovuto fare una iniezione di Valium subito, poi visto che non si calmava le abbiamo fatto cinque milligrammi in endovena. Ha dormito tutta la notte.», disse l’assistente.

«Va bene, va bene», interruppe il medico, «adesso come sta?»
«Si è vestita, dice che deve tornare a casa.»

Mariarosa sedeva scomposta su una sedia, troppo intontita per darsi alla fuga.
Il dottore spinse uno dei pulsanti su un interfono dall’aria antica.
«Infermiera, porti qualcosa da bere per la signora.»
«Acqua va bene grazie, non si disturbi», disse Mariarosa assumendo una posizione più eretta.

E non accennò a voler continuare fino a che ebbe bevuto due sorsi dal bicchiere che le era stato portato.
«Mi racconti tutto e stia tranquilla, abbiamo tempo», disse il dottore sbirciando l’orologio. Era quasi l’ora di pranzo e iniziava ad avere fame.
«Poi potrò andare a casa?»
«Signora Tavassi, nessuno la trattiene, ma posso provare ad aiutarla, se vuole. Mi dica come è scomparsa sua sorella. Cominci dall’inizio.»

Mariarosa inspirò profondamente.

«Noi speravamo tanto che ci fosse, Alfonso, sa, un ragazzo così carino che parla tutte le lingue, invece c’era un’altra Guida…» e si interruppe con lo sguardo perso nel vuoto.
«Quando è stato questo?» Il dottore fece un segno di incoraggiamento con la mano che voleva dire vada avanti.
«Questo cosa?» chiese Mariarosa.
«Questa gita, avevo inteso che la sparizione di sua sorella é stata a Ravenna.»
«No, mia sorella è sparita il giorno dopo. Che giorno è oggi?»
«Sabato», disse il dottore che odiava essere di turno nei prefestivi.

«È stato ieri. Allora, lo so che è difficile da credere. Intanto Alfonso non c’era, al suo posto c’era una Guida che avrà avuto la nostra età, ah, mica che io abbia qualcosa contro le persone anziane ma a un certo punto ci si deve ritirare, poi questa aveva anche delle pretese di voler sembrare più giovane e una voce, una voce…»

«Vada avanti, Mariarosa» disse il dottore la cui pazienza si andava esaurendo nell’attesa del pranzo, «non si distragga, vada al dunque, se c’è un dunque.»

«Eccome se c’è. Eravamo a Santa Apollinare in Classe, prendiamo la città alle spalle, mi ricordo che ha detto la Guida, spirito di patata… Siamo scesi dal pulmino, il vantaggio di quella chiesa è che ha il parcheggio a lato e si deve camminare poco, allora siamo scesi, siamo entrati… io credo che la colpa sia stata tutta…. della Guida?»

È troppo fatta, pensò il dottore, quasi quasi la mando in reparto, ma doveva limitare i ricoveri per via dei tagli alla sanità e sollecitò la continuazione del racconto.

«Mi ricordo che la Guida ha detto questi affreschi risalgono alla tal data ma si sbagliava e allora Adri e io siamo andate in bagno e quando siamo uscite nel parcheggio siamo salite sul pulmino sbagliato. Solo che non era un pulmino normale.»
«E cos’era?» chiese il dottore.
«Era un laboratorio mobile dell’università di Bologna.»

A quel punto Mariarosa si interruppe, come poteva rivelare di avere rubato? Quindi disse una piccola bugia.
«All’interno c’era un professore veramente gentile che mi ha regalato una penna, cioè, credevo fosse una penna stilografica.»

Il dottore attendeva, ormai rassegnato la continuazione del racconto.

«Un tipo strano, stava facendo un pediluvio e aveva una malattia che gli faceva le mani verdi.» Mariarosa si mosse sulla sedia a disagio. «La bacchetta magica ha fatto scomparire il quaderno, poi la scrivania e il pollo e tutto il resto e alla fine è sparita anche mia sorella.»

Il dottore sapeva cosa sospettava la polizia che aveva prelevato la signora Tavessi dalla sua casa nel bel mezzo di una crisi isterica e cioè che avesse lei stessa occultato il corpo della sorella dopo averla uccisa.
Ma sapeva anche che da un tale delirio difficilmente avrebbero tirato fuori qualche informazione utile e comunque non era compito suo.
Per quel che lo riguardava la signora poteva anche uscire.

«Se mi lasciate andare a casa recupero la penna e gliela porto. È magica, lo giuro, poi devo controllare se mia sorella è tornata.»

Così Mariarosa fu affidata a una paio di poliziotti che, per rispetto alla sua età, invece che in caserma l’accompagnarono a casa per interrogarla.

La penna era ancora per terra, nel corridoio. Mariarosa la raccolse, con le mani tremanti.
«Adri», chiamò, rivolgendosi alla penna. «Adri ci sei?»
Nessuno rispose, solo silenzio. Iniziò a piangere.
«Tutto a posto signora?» chiese il poliziotto che stava entrando in casa.

Mariarosa fece cenno di no con la testa, e si asciugò le lacrime col dorso della mano. Inavvertitamente strinse le dita e il poliziotto scomparve.

Mariarosa prese la borsetta dall’attaccapanni e con estrema attenzione vi ripose l’oggetto poi uscì di casa, apri il cancelletto, si abbassò sul finestrino dell’auto dove un poliziotto stava ancora al volante e disse:

«Il suo collega è sparito, mi riporta in ospedale per favore? Penso che il medico non mi abbia creduto.»

La confusione che seguì fu totale, ma nessuno si prese la briga di ascoltare cosa aveva da dire la signorina Tavassi. Erano trascorsi pochi secondi fra l’entrata del poliziotto in casa e la sua scomparsa. La donna non poteva avere avuto il tempo materiale per eliminare e far scomparire un uomo grande il doppio di lei.

Data la sua insistenza e l’intralcio che ormai costituiva per le indagini fu riportata in ospedale dove il dottore, che l’aveva interrogata un paio d’ore prima non era ancora riuscito ad andare a pranzo.

«Signora Tavassi, cosa è successo ancora?»
«Mi scusi», disse Mariarosa, «ci ho messo tanto perché nel frattempo è sparito il poliziotto. La bacchetta magica è troppo sensibile.» Come una bambina scoppiò di nuovo in lacrime.
«Rivoglio mia sorella» piagnucolò mentre frugava nella borsetta alla ricerca della penna, «e questa non la voglio più.»

Sfortunatamente la penna era rivolta verso la porta mentre stava entrando l’infermiera che scomparve lasciando solo una scia del suo profumo.
«Che diavolo…» il dottore fece un salto indietro. «Tenga giù quell’affare, non me lo punti addosso.»
Troppo tardi.

Mariarosa, ormai sola nell’ambulatorio, si guardò intorno desolata. Senza più pubblico smise anche di piangere. All’improvviso dalla penna uscirono una filza di crepitii, scrosci e fischi, poi una voce metallica scaturì dall’apparecchio.

«Signori terrestri, vogliamo sperare che il furto del trasmettitore di materia non sia un atto deliberato di provocazione verso il nostro mondo. Siamo un popolo di scienziati, di ricercatori, pratichiamo la pace e non capiamo il perché di tutto questo materiale che ci state mandando. É forse l’inizio di una invasione? Riteniamo per il momento di dover interrompere qualsiasi contatto con il vostro pianeta e vi rendiamo quello che ci avete spedito. Non toccate il trasmettitore» la voce si fece imperiosa pur mantenendo il tono metallico.

Mariarosa, impietrita, lasciò cadere la penna. Ci fu un’altra sequenza di scoppiettii, l’oggetto cominciò a vibrare e l’aria si riempì di ozono poi, veloci come erano andati cominciarono a ricomparire: il block notes con le nuvolette azzurre, il quaderno, la rivista di giardinaggio, la scrivania, una sedia, il pollo crudo e gli armadietti della cucina, l’Adriana Tavassi, un poliziotto, l’infermiera e il dottore. Tutto e tutti all’apparenza sani e integri.

«Adri», gridò Mariarosa e si precipitò ad abbracciare la sorella.

Il dottore guardò con orrore la bacchetta, ora silenziosa e inanimata sul pavimento. Nessuno ebbe il coraggio di toccarla.

(Riana Rocchetta)